Il futuro segnato degli Stati-nazione

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Mi impressionano le reazioni di commentatori e opinionisti al referendum catalano, tutte schiacciate sulla contingenza (cosa succederà adesso, cosa farà questo o quel protagonista) o impegnate nella difesa astratta di sacri principi (Costituzioni vs autodeterminazione dei popoli, etc…). Per non parlare della caciara delle tifoserie nostrane, sempre pronte a schierarsi solo per propaganda (il top della dabbenaggine: la bandiera catalana esposta a Napoli, dai balconi di Palazzo San Giacomo). Misere cose. Mentre il problema a me sembra un altro, molto più serio. Riguarda lo smottamento sempre più frequente di assetti consolidati nel nostro passato che si manifesta ormai ad ogni latitudine, assumendo di volta in volta forme diverse (dalle crescenti tentazioni autonomiste e secessioniste alla Brexit ai populismi di Trump o di Grillo). Fratture cui mi sentirei di affibbiare un’etichetta simile: sono tutte manifestazioni di una crisi irreversibile degli Stati-nazione.

Prendiamola alla lontana. Usando solide infrastrutture fatte di frontiere e dogane, eserciti e polizie, tassazioni e welfare, Statuti, Costituzioni e assemblee variamente rappresentative, l’intera politica moderna si è costruita intorno agli Stati-nazione, la cui imprescindibile sovranità fu sancita dal trattato di Vestfalia, nel 1648. Da allora tutto ha ruotato intorno a questi veri e propri moloch, detentori del monopolio della forza sui territori, legittimati a drenare e redistribuire risorse, oltre che a fissare principi e confini della cittadinanza, beninteso con strumenti spesso democratici.

Successivamente, nella loro fase propulsiva ed espansiva, gli Stati-nazione hanno gettato le basi, a cavallo tra il XIX e il XX  secolo, della prima globalizzazione; e anche la seconda, definitiva ondata globale – quella che stiamo vivendo – è stata in fondo generata dai loro apparati militari e tecnico-scientifici. L’approdo conclusivo riflette la più classica delle eterogenesi dei fini: la volontà di potenza (di espansione imperiale, commerciale, economica, scientifica) delle nazioni ha partorito la creatura globale che ci sta letteralmente (in meglio!) cambiando la vita, trasformando progressivamente gli Stati moderni in puri e semplici simulacri. Simboli vuoti e lontani, gonfi di prerogative e privi di potere reale, ormai spogliati del loro ubi consistam originario.

E’ un punto di vista eccessivo, drastico, radicale, quello che ho appena esposto? Chi lo pensa dovrebbe banalmente rispondere alle seguenti domande: ritenete oggi possibile intercettare con strumenti giuridici e normative nazionali la circolazione del denaro che corre in rete (o arginare la diffusione e la circolazione planetaria di informazioni, che è una cosa non tanto dissimile…)? Si può seriamente immaginare di arrestare il commercio mondiale, quello che oggi consente ad ognuno di noi di acquistare merci a prezzi più convenienti da qualunque parte del mondo provengano? Qualche persona dotata di senno può pensare di mettere un argine – se non temporaneamente, e con misure coercitive – alle migrazioni di esseri umani che vogliono scoprire il mondo, avendo il solo, irrefrenabile obiettivo di cambiare in meglio la propria esistenza?

Direte che gli esempi sono estremi, che i processi sono lenti, contraddittori e magari dagli esiti incerti, almeno nei tempi brevi delle nostre esistenze. Forse. Ma il punto è che le classi dirigenti, i politici, le tecnostrutture, gli intellettuali dovrebbero guardare le evidenti tendenze di fondo, andare al di là degli epifenomeni. La politica chiusa nei confini degli Stati-nazione non è più in grado di fornire le risposte di una volta a bisogni e aspettative degli elettorati: la crisi dello Stato sociale è irreversibile. Aumentano gli ambiti in cui ogni cittadino può esercitare proficuamente forme di disintermediazione. Acquistano sempre maggior peso le dimensioni estreme della socialità: il locale è sempre più tale (mi occupo di quello che accade nel mio condominio, nel quartiere o tuttalpiù nella mia città), gli altri problemi (quelli da cui sono ossessionato mediaticamente) sono mantra globali. Le stazioni intermedie (fondamentalmente – torniamo al punto – gli Stati nazionali) o si rilegittimano sulla base di una nuova missione generale o finiranno per deperire. Di tutto questo – penso – prima o poi verrà il momento di discutere.

Questo articolo ha 2 commenti

  1. massimo ricciuti

    Inoppugnabile argomentazione!!!!!

  2. Valentina Falcioni

    mah…non escludo che la reazione ai grandi blocchi possa essere la ricerca del particolarismo identitario..e, di fondo, tante regioni sotto un unico confine…dalla catalogna alla castiglia, dal veneto alla renaina la frisia e la bretagna, non è detto che potrebbero gestire peggio la grande europa….non escludo questo scenario…non ,.o escludo e non mi spaventa…bisognerebbe che i governi centrali ci mettessero la testa..significa perdere sovranità e acquisirne diversamente…ma non è una cosa sssurda e senza senso

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