Due domande a Milei

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Sono – confesso – piuttosto affascinato da Milei, e prevengo la stanca accusa che mi verrà rivolta: ecco il vecchio comunista che, come ogni neofita, abbraccia il mercato e l’anarcocapitalismo con lo stesso entusiasmo che mostrava quando sognava il mondo nuovo oltrecortina o nelle giungle del Vietnam. Accusa che mi viene lanciata grosso modo da una trentina d’anni, cui non sono in grado di rispondere se non facendo appello a una sovrumana pazienza. E depuriamo anche la valutazione del mileismo dall’inevitabile corpus propagandistico che ne ha accompagnato l’ascesa. Che tu sia liberista o socialdemocratico, sovranista o rivoluzionario, il tasso di sciocchezze che devi dire in una campagna elettorale è sempre molto alto. Per cui risparmiatevi alate considerazioni woke su motoseghe, sparate antiabortiste, vendite di organi, etc… e andiamo alla sostanza di quello che Milei sta combinando (per ora, sia chiaro, poi vedremo gli sviluppi e non avrò remore a cambiare idea sul soggetto) al governo dell’Argentina.

Nell’intervista a Nicola Porro che ha rilasciato qui e a “Quarta Repubblica”, Milei in sintesi dichiara, sempre con linguaggio colorito (“lo Stato è la più grande organizzazione criminale”), che la società cresce solo grazie all’iniziativa privata e che lo Stato è una sovrastruttura ingombrante e parassitaria, che sottrae risorse agli investimenti. Detto che le realtà nazionali sono piuttosto diverse tra loro (è evidente che l’efficacia della macchina statale e degli investimenti pubblici non è la stessa dappertutto, inutile fare esempi), possiamo dire con una certa obiettività che in Italia, almeno dagli anni ’60 del secolo scorso, lo Stato investitore ha fallito. E la crescita smisurata della spesa ha generato un debito pubblico monstre e un progressivo appiattimento della curva della crescita. Questi sono dati di fatto: in Italia il mercato ha generato il boom in anni lontani, da allora ci siamo seduti sugli allori, e lo Stato si è sviluppato su sé stesso, con il trionfo delle sue escrescenze burocratiche. Da queste ovvietà ricavo personalmente la conclusione non solo che, dalle nostre parti, avremmo bisogno di fortissime iniezioni liberiste, ma che la stessa cultura del mercato e della concorrenza dovrebbe tornare ad avere una cittadinanza che oggi non ha (e che neanche il governo Meloni sta riportando di attualità).

Essendo d’accordo con Milei su questo principio cardine, mi vengono però da fare a lui e soprattutto ai suoi laudatores acritici due domande supplementari, sempre legate al grande, originario tema della libertà. La prima riguarda il rapporto tra mercato e diritti individuali. Lasciamo stare il woke e il politicamente corretto, approdi ridicoli/odiosi della cultura élitaria della sinistra postmarxista. Ma perché mai l’approccio anarco-liberista dovrebbe contrastare o comprimere i diritti individuali, a partire da quelli delle donne a tutte le altre espressioni della libertà del singolo? Seconda questione, ancora più delicata, è il rapporto tra anarcoliberismo e religioni. Non mi risulta che i grandi anarcocapitalisti dagli inizi del secolo scorso a oggi (da Spooner a Tucker, da von Hayek a von Mises a Rothbard a Hoppe a Huerda De Soto allo stesso David Friedman, ebreo che parla delle religioni solo come sistemi di norme e valori sociali) siano stati o siano particolarmente legati alle credenze religiose. Con sfumature diverse, nessuno di loro si negava o si nega alla ricerca spirituale, ma è evidente che il vangelo della libertà dell’individuo, in tutti i suoi aspetti, è piuttosto distante dalla fede e dalla pratica religiosa.

E dunque, ci sta (ma sempre per propaganda o piccole convenienze elettorali) che Milei strizzi l’occhiolino a bigotti e reazionari su questi temi cruciali, ma una possente e luminosa teoria come quella anarcocapitalista ha bisogno, a mio avviso, di coerenze assai più solide.