Procol Harum – “A Whiter Shade of Pale“
Strusciamenti infiniti e gonadi che soffrono nei primi jeans stretti. Nei balletti dell’inverno 1967, l’unico “lento” ammesso, tra gli sbuffi dei più timidi e la malcelata soddisfazione delle ragazzine, è questo 45 giri che arriva da molto lontano, annunciato da una copertina blandamente psichedelica, un’etichetta loffia (la Deram) e un titolo incomprensibile, “Un’ombra più bianca del pallido”.
Tutto è distante, profondo, misterioso. Il suono (ovattato, flautato, caldo, come definirlo?) dell’organo Hammond nella lunghissima intro; la voce potente e strascicata di Gary Brooker; il nome del gruppo – Procol Harum – di origine incerta, frutto (pare) di una storpiatura dal latino (procul harum, lontano da queste cose…); il testo intraducibile (Mogol inventerà di sana pianta quello italiano di “Senza luce“) creato da un poeta allampanato, Keith Reid, che non suona ma appare nelle foto di gruppo.
L’insieme produce una sbornia di esaltanti emozioni, che nei balletti raggiungono inesorabili le vie basse, e nelle classifiche scalano i piani alti: 5 settimane in testa alla Hit Parade di Lelio Luttazzi, 13a hit di tutti i tempi, 243 cover accertate (il sottoscritto ne ha scaricate 136).
Ma è il codice genetico del brano che viene davvero da molto, molto lontano: il ragazzino brufoloso di formazione bachiana non ci mette molto a capirlo. Non è questione di scopiazzature o plagi, come qualcuno dirà, ma è evidente che l’intro ha la stessa base armonica della notissima “Aria sulla quarta corda“ dalla Suite in Re, e che il ritornello somiglia assai all’altrettanto famoso Corale “Wachet auf, ruft uns die Stimme“.
Dato che ai geni non si comanda, i PH non abbandoneranno mai questa strada. In “Repent Walpurgis“ inseriranno il “Preludio in Do maggiore” dal Clavicembalo ben temperato, in “Fires (Which Burnt Brightly)“ l’assolo di Christianne Legrand (già Swingle Singers) citerà esplicitamente la “Partita in Do minore”. Più in generale, sull’intera loro produzione influirà l’ottima formazione musicale di Brooker, che continuerà a sfornare strutturate armonie barocche, magari involute ma sempre ben scritte.
Sarà la condanna e il limite dei PH. Pionieri del progressive rock, del rock sinfonico, tra i primi a creare concept album, i PH non furono mai accettati nel salotto buono degli anni ’70, frequentato da King Crimson, Genesis, Jethro Tull, Colosseum, che addirittura incisero un vero plagio di “A Whiter Shade of Pale” (“Beware the Ides of March“) senza neppure citarli.
Avevano un’aria un po’ cheap, i PH, un non so che di vecchio. Non sfasciavano chitarre, non si facevano, non erano diabolici, maledetti, alternativi. Il ragazzino brufoloso li adorava, perché garantivano il perfetto collegamento tra le familiari radici bachiane e il mondo in movimento dell’epoca. Ma non poteva urlare in pubblico il suo amore sviscerato. Lo riservava agli strusciamenti nei balletti, dove comunque l'”Aria sulla quarta corda” non avrebbe potuto sostituire l’organo Hammond di Matthew Fisher.
Adoro e venero Bach, ma, poiché è lo Zeus dell’Olimpo musicale, se tra 1000 e rotti anni mi ritroverò davanti a Lui per chiedere misericordia dei miei trascorsi musicali, chiederò di intercedere per me a Wolfgang Amadeus. Lo sento più umano, più “peccatore”; forse sarà un ottimo avvocato per me.
Comprendo. Non ostacolerò la richiesta.