La macchina del dolore

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Nessun sentimento è più intimo del dolore, tanto più quanto ti è più vicino, quando colpisce negli affetti più carnali, quando ha la ferocia del trauma improvviso o l’innaturalità della scomparsa di chi hai generato. Chi lo subisce sa che non c’è altro essere umano che possa alleviarlo. Perché il dolore non si può trasmettere, non si può condividere. Possono essere un conforto momentaneo le parole – inevitabilmente di circostanza, perché quelle giuste non esistono –  di parenti e conoscenti, perfino gli osceni applausi che ora vanno di moda nei funerali possono esorcizzare l’accaduto, generare per un attimo l’illusione che il calore dei presenti possa ridare vita ad un corpo inesorabilmente morto: vaghissime consolazioni che massaggiano in superficie le ferite, rimangono nella memoria sì, ma solo per acuire il vuoto.

E comunque ci sono confini che non bisognerebbe mai varcare. È quando la tua disperazione viene esposta, dichiarata e manipolata dagli altri, diventa in apparenza di tutti, e tu non puoi più viverla con la pienezza che merita. Nel suo diventare pubblico, finisce per perdersi (spero si colga il senso di queste parole) la grandezza, la forza, la bellezza di un legame privato, segreto che nessun altro può fare suo.

Quando poi di un dolore si impadronisce la disumana macchina mediatica, la sacrosanta debolezza della tua condizione viene sfruttata e scarnificata con crudeltà inaudita, e ti ritrovi in balia degli sceneggiatori del dolore: belve a volte finanche ignare di essere tali, selve di microfoni che fanno di te quello che vogliono, giornalisti assetati di false notizie pur di sopravvivere nella giungla.

Non ci sono conclusioni da trarre, se non reclamare silenzio. Quello degli operatori della macchina del dolore, ognuno dei quali dovrebbe fare appello alla propria residua morale per non essere partecipi dello strazio. Unica possibilità per aiutare le vittime del dolore a non farsi stritolare in una macchina molto più grande di loro.