RETURN è un progetto di partenariato esteso finanziato dal PNRR, che mira a rafforzare la ricerca sui rischi ambientali, naturali e antropici del sistema Italia. Si sta sviluppando con il coinvolgimento di Università, settori della pubblica amministrazione e aziende di primaria importanza nazionale, approfondendo tematiche di grandissimo rilievo: 1) il rischio-acqua (alluvioni, siccità, inondazioni, etc…); 2) l’instabilità dei terreni (frane, subsidenza, liquefazione, etc…); 3) il rischio sismico e vulcanico; 4) il degrado ambientale, sia terrestre che acquatico; 5) il cosiddetto multi-rischio nelle aree urbane e metropolitane; 6) lo stato e i rischi legati alle principali infrastrutture; 7) le azioni possibili di partecipazione e resilienza dei cittadini; 8) l’approfondimento delle conoscenze scientifiche e metodologiche che supportano l’elaborazione degli scenari di rischio. Sono 8 aree tematiche (spokes) che agiscono in maniera interdisciplinare con l’obiettivo comune di elaborare dei modelli che possano permettere di governare/abbassare la soglia generale del rischio. Obiettivo cruciale in un paese come il nostro, per ragioni che è superfluo approfondire.
Partecipando stamattina, a Torino, ad un workshop promosso su questi temi, ho ascoltato cose interessantissime e ho imparato molto, anche se alcuni approfondimenti tecnico-scientifici erano per me non poco impegnativi. Ma il mio orecchio di comunicatore si è allertato particolarmente quando è entrato in scena un tema affascinante e cruciale: come riuscire a comunicare l’incertezza.
È un concetto che riguarda ad ogni livello il mondo in cui viviamo, ma – com’è evidente – è particolarmente significativo quando parliamo di rischi. Per definizione il rischio evoca una possibilità, una cosa che può accadere oppure no: qualcosa che richiama direttamente una condizione di incertezza. A rendere le cose più complesse, c’è poi il fatto che tutti noi (cittadini, comunità, decisori pubblici) tendiamo naturalmente a esorcizzare il rischio, a non valutarne la portata fino a quando non si manifesta come un fatto. Ma, a quel punto, siamo già in zona emergenza, non più in fase di prevenzione.
Come fare, allora – prima di un evento – a comunicare il rischio in maniera efficace?
In un intervento del workshop – che ho personalmente molto apprezzato – si è parlato di una comunicazione dell’incertezza che faccia leva su una visione probabilistica e non deterministica del rischio, che sviluppi quindi dei modelli fondati su un range di possibilità che un determinato evento si manifesti (scusate se volgarizzo banalmente, un po’ come accade con le forchette degli exit poll elettorali), e non su un’affermazione perentoria (l’evento ci sarà, anche se in realtà non sappiamo quando, che dimensioni avrà, etc…).
L’approccio probabilistico fornisce indicazioni meno assolute ma certamente più attendibili e anche meglio comunicabili. Perché educa le comunità di riferimento a fare i conti con la scienza per quello che effettivamente è: un’attività umana fondata sulla sperimentazione, esposta alla verificabilità e alla falsificabilità (Popper: unico criterio scientifico a nostra disposizione è una teoria che non potrà mai essere verificata del tutto, ma potrà solo essere falsificata), che quindi non va assunta come un dogma (anche perché l’alternativa al dogma diventa inevitabilmente il rigetto – altrettanto e più dogmatico – della pratica e della ricerca scientifica).
Dovessi ricavare una riflessione conclusiva dal bel workshop di stamattina, direi quindi che – in particolare quando si parla di fenomeni che possono avere un impatto traumatico sulle popolazioni – è essenziale che la scienza si manifesti mostrando la grandezza del metodo scientifico del dubbio. Questo punto di vista non fornirà certezze assolute, ma farà crescere nel tempo una ragionata fiducia delle comunità, anche sulla possibilità di far fronte a eventi estremi.