Classi dirigenti

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Si riprende a discutere di classi dirigenti, dopo le numerose gaffes (o peggio) capitate ai nuovi governanti. Il tema ritorna periodicamente, da 30 anni a questa parte: ed è da lontano infatti che bisogna partire. A mio avviso, solo assumendo come snodo cruciale la stagione di Mani Pulite, si può azzardare una valutazione sulle classi dirigenti dell’Italia contemporanea. Qui tralascio ogni giudizio di merito, ma la cesura del ‘92-’93 fu obiettivamente traumatica, generalizzata, epocale, lasciò il paese senza alcun ricambio politico spendibile e – quel che è più grave – del tutto privo di adeguati meccanismi di formazione e selezione di un nuovo sistema della rappresentanza e quindi di una credibile e autorevole governance.

Da allora, una politica ridotta ad una funzione ancillare nei confronti dei due poteri dominanti e alleati (quello mediatico e quello giudiziario) ha messo in cantiere, su basi fragilissime, almeno cinque tentativi di costruire nuove classi dirigenti, avviati dalle 5 leadership più significative emerse nel trentennio. Tentativi falliti i primi quattro: il quinto è in corso.

  1. All’indomani di Mani Pulite Berlusconi crea da zero Forza Italia, dandosi l’ambiziosissimo obiettivo della rivoluzione liberale. Tentativo stroncato sul nascere dall’arcinoto avviso di garanzia recapitato a mezzo stampa, ma non c’è dubbio che gli sforzi iniziali di apertura e coinvolgimento di forze significative del mondo intellettuale liberale erano già stati vanificati dall’irruzione sulla scena politica di molti nuovi protagonisti politici provenienti da Fininvest, e legati piuttosto organicamente agli interessi aziendali, difficilmente in condizione di elevarsi al rango di statisti. A Berlusconi è data poi una seconda chance nel 2001 ma è una ripetizione stanca, dal suo punto di vista rovinata dall’irruzione e dal sopravanzare delle vicende giudiziarie su tutto il resto. E finanche una terza nel 2008, ma segnata irrimediabilmente dalla sfiducia che l’Europa esprime esplicitamente nei suoi confronti. In tutte e tre le occasioni di governo, in sostanza, Berlusconi non è mai stato in grado – eppure ne avrebbe avuto il tempo, e la forza politica ed elettorale – di costruire una nuova, diffusa e competente classe dirigente. Mentre, a monte e valle delle sue tre stagioni da governante, la continuità delle funzioni statali è stata garantita dal deep state italiano (nel suo intreccio di burocrazie, tecnostrutture, forze sociali organizzate etc…) composto da funzionari con una cultura continuista, conservatrice e di stampo consociativo, prevalentemente – ancorché vagamente – di orientamento postdemocristiano e postcomunista. Deep state sostenuto, nelle fasi di emergenza, dal mondo della finanza interno ed internazionale.
  2. Con il progressivo declino di Berlusconi, emergono altri tentativi, anche più radicali ma di minore durata, di rinnovamento delle classi dirigenti. A partire da quello di Renzi, contraddistinto dall’obiettivo ambizioso di una Grande Riforma, ma naufragato per la promozione di una classe dirigente non cattiva nel merito, ma segnata da un marcato provincialismo. L’errore capitale di Renzi è quello di ritenere che possa bastare sostituire ad una burocrazia statale palesemente stanca una nuova leva di governanti entusiasti, senza individuare una linea di paziente tessitura tra vecchio e nuovo. Da questo punto di vista il risultato del referendum costituzionale – con la convergenza nel NO di tutti i conservatorismi d’Italia – non è che l’ultimo approdo di una linea di rinnovamento radicale, ma ingenuamente dirigista.
  3. Decisamente più abborracciato è il tentativo di Salvini di dare un profilo nazionale alla Lega per inseguire la chimera di una nuova classe dirigente. Obiettivo irrealizzabile per fragilità di impianto culturale nel suo insieme e perché – a fronte di una dignitosa classe dirigente locale nel Nord – la Lega nel resto del paese non può che assemblare i cocci della parte più vecchia e screditata del passato sistema. Questo terzo tentativo, palesemente inadeguato alle necessità, naufraga così molto rapidamente.
  4. Diverso per ambizione il tentativo dei Cinquestelle, che non va sottaciuto solo perché oggi evaporato. Grillo, con i suoi vaffa, i meetup, con la crescita negli anni di un movimento diffusissimo che arriverà a raccogliere nel 2018 il 32% dei voti, è il più estremo dei sostenitori del rinnovamento della classe dirigente. E, con il suo “uno vale uno”, porta alle conseguenze ultime questa linea. Naturalmente il concetto stesso di “uno vale uno” cozza contro il buonsenso, oltre che impattare con i profili culturali e finanche evolutivi dei singoli esseri umani. Ma non è un caso che emerga, dopo un ventennio di fallimenti. L'”uno vale uno” è il tentativo disperato di far fronte, nei tempi rapidissimi imposti dall’avanzata elettorale, al totale sfrangiamento delle vecchie classi dirigenti. E c’è voluta la sua fine fulminea e ingloriosa per mostrare a tutti che una classe dirigente non può in alcun modo improvvisarsi.
  5. Di tutto questo immagino sia consapevole Giorgia Meloni, che sta avviando il quinto tentativo di formazione di una nuova classe dirigente nazionale. Teoricamente, la Meloni ha più possibilità dei suoi predecessori. Da governante gode di una maggioranza larga e di un’opposizione inconsistente, e ha un partito ai suoi piedi, anzi da lei costruito, passo dopo passo, in lunghi anni di opposizione. E, proprio nella conferenza stampa tenuta ieri, ha pronunciato una frase significativa: “Non sono disposta a fare questa vita se le persone intorno a me non capiscono il senso di questa responsabilità“. Vuol dire che comprende quanto sia cruciale la sfida, e che intravede pericoli all’orizzonte: sa che la sua attuale classe dirigente non è (in parte, del tutto, ognuno la veda come vuole) all’altezza, e teme che la sua leadership possa essere inficiata dalle risorse scadenti che la attorniano. Per Meloni quindi (come per tutti gli altri, ma anche di più) il problema sarà progressivamente emanciparsi dalla morsa di un ceto politico forgiato in battaglie identitarie e oggi inebriato dalla conquista delle “stanze dei bottoni” (di cui non riesce a vedere l’illusorietà, per inesperienza e deficit culturali), per conquistare saldamente il centro del deep state. Cosa che aveva tentato all’inizio del suo mandato, allacciando un rapporto emblematico con Mario Draghi, e che adesso sta mollando, forse preda della tipica hubris che si impossessa di chiunque occupi posizioni di potere, cullandosi nelle fascinose e precarie curve dei sondaggi.

Vedremo gli sviluppi di questo ennesimo tentativo. Il punto di fondo, però – riesca o no la Meloni dove gli altri hanno fallito – è che l’Italia non può dipendere – pena l’accelerazione di una decadenza del sistema già ampiamente in atto – dalla riuscita di queste scommesse. Tutti dovrebbero finalmente capire che una nuova classe dirigente andrebbe costruita sulla base di un semplicissimo principio: quello dei tempi lunghi. Non esiste altra possibilità, non ci sono scorciatoie. E dovrebbero capire che per garantire un processo di questa natura è necessario avere un sistema che assicuri stabilità, ristabilendo accettabili criteri di rappresentanza e di governabilità. E qui si torna al tema delle riforme istituzionali, di cui chiunque transiti da palazzo Chigi e dintorni comprende la necessità e l’urgenza, ma non riesce a realizzare. Perché? Questa è un’altra storia, magari ne parleremo.

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