Sono le 4 di mattina. Carlo, suo figlio, mi dice che Umberto non ce l’ha fatta. E io penso che, intanto, non si può tacere qui chi e che cosa è stato – per me e per tanti – Umberto Minopoli. Poi bisognerà parlarne per bene, in modo più appropriato, una volta attenuato il diluvio del dolore.
Umberto è stato il più bravo. Io lo so da quando entrambi avevamo 15 o 16 anni e di lui sentivo solo parlare. Frequentavamo scuole vicine (il Genovesi e il Vittorio Emanuele), e tra noi, genovesini malati di estremismo, si diceva a mezza voce che a poche centinaia di metri c’era un ragazzo bassino e riccioluto che da solo teneva testa ai gruppettari, riuscendo a imporsi nelle infuocate assemblee con argomenti razionali e puntuti. Era polemico, appassionato, tenace. Andava controcorrente. Allora come dopo, per il resto della sua vita.
Quando smisi di fare l’estremista, mi iscrissi all’organizzazione giovanile del Pci, di cui lui diventò, a Napoli, segretario. Quando, per dirvene una, da membro della sua segreteria, un giorno cominciai a chiedergli un dibattito più impegnato e alto sui destini del nostro movimento, non solo sulla conta delle tessere, lui nicchiò per un po’, infastidito da quella che appariva la messa in discussione della sua autorità, poi ci stese tutti con una chilometrica relazione in cui disegnò il futuro glorioso del nostro movimento, partendo dagli accordi di Bretton Woods per finire ai principali nodi politici dell’Italia, che ci sbatté sul tavolo con alterigia, sempre come a dire “tanto che volete saperne, voi…”.
Era il più bravo quando fu chiamato a Roma, nella segreteria nazionale della Fgci, dove io lo seguii come un soldatino, e insieme tenevamo testa ai romani che facevano il filo ai settantasettini, mentre noi volevamo essere comunisti sì, ma operativi e concreti (di destra eravamo definiti, e non la sentivamo come un’offesa…). Fu lui a scrivere – a 22, 23 anni – la 285, una legge sull’occupazione giovanile che ancora si ricorda come uno dei – pochi – risultati positivi della presenza del Pci nella maggioranza di governo.
Era il più bravo quando tornò a Napoli, al partito. Apprezzato da tutti, in particolare da Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte, con cui trascorrevamo serate intime e piacevoli. Lui parlava con loro senza timidezza, io perlopiù ascoltavo e mi dicevo fortunato ad essere amico del più bravo di tutti i giovani leoni del Pci.
Il più bravo non diventò segretario del Pci a Napoli, proprio perché era tale. Sulla sua bravura – presuntuosa, certo – prevalsero a più riprese le piccole logiche di correnti e di apparato, impedendogli di guidare il partito nella città con cui aveva maturato – lui puteolano di nascita – un rapporto irragionevole e carnale.
Quando, respinto da Napoli (il concetto è forte, ma di questo si trattò), il più bravo si trasferì a Botteghe Oscure, i maggiorenti del palazzo facevano a gara per tenerlo con loro. E dove lo trovavi uno capace di lavorare sui dossier, sulle leggi, che allo stesso tempo aveva acume politico e cultura da vendere? In quegli anni – con la sinistra che si avvicinava al governo – cominciò così una specie di sfruttamento intensivo; il più bravo iniziò a fare la spola tra incarichi secondari di partito e segreterie di ministeri, prima di assolvere a ruoli manageriali esterni alla politica, di cui – questo ve lo dico per certo – non si è mai innamorato. Il suo amore, mai corrisposto nella maniera dovuta, era la politica.
Per questo il più bravo, negli ultimi anni, ha cominciato ad occuparsi di scienza, di astronomia, di fisica. Cercava dei succedanei della politica, lanciandosi in clamorose imprese intellettuali senza sprezzo del pericolo, maturando una preparazione indiscutibile in campi che non aveva mai esplorato. È stato il più bravo fino alla fine. Solo con il suo corpo non lo è stato. E così, qualche ora fa, ci ha lasciati.
Quanto alla famiglia, l’ha amata di un amore pieno, esclusivo, geloso, possessivo, anche cieco. Carmela la conobbe da ragazzino, diventò la solidissima e intelligente compagna di vita, e gli ha sempre tenuto testa con sapienza, ruvida tenerezza e orgoglio. Giacomo e Carlo sono stati i suoi intoccabili gioielli: non sarà semplice sopravvivere al più bravo, ma ce la faranno.
Ora siamo qui a Milano, io e Francesco Izzo, l’amico comune che che aderiva con infinita generosità a tutte le sue richieste, che ha cercato di mettere ordine nella sua vita, e piangiamo e ridiamo ricordando le serate trascorse insieme, i micidiali sfottò che ci rimpallavamo, l’amore che ci siamo scambiati. Tra qualche ora procederemo con le pratiche burocratiche, per portare Umberto a Roma. Lì penso che saremo in tanti a salutare il più bravo di tutti.