Un’intervista a Libero

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Barbara Romano per “Libero”

C’è un comunista a Palazzo Grazioli. Un comunista anomalo, con l’ufficio foderato di gigantografie di LeninGorky e Mao Zedong, una mountain bike parcheggiata a fianco alla scrivania, da cui svettano strane sedie alla Star Trek, e un paio di Nike incorniciate al muro. Claudio Velardi in effetti dice di essere un ex. Ex comunista, ex ds, ex dalemiano… Lothar, comunque, lo è rimasto suo malgrado, perché i capelli non gli sono ricresciuti più dai tempi in cui era primo consigliere di “Baffino”. E gli è rimasto pure il pallino della politica. Tant’è che, sebbene lui definisca “una parentesi” la sua presenza nella giunta Bassolino, ha lanciato una lista civica trasversale per le Comunali di Napoli. E così come continua a macinare chilometri di corsa nonostante abbia appeso al chiodo le scarpette della maratona di Firenze 2005, non ha mai smesso di bazzicare i palazzi del potere per quanto si dichiari ormai fuori dal sistema. Qui al Plebiscito si è trasferito armi e bagagli con “Reti”, la sua società di lobbying. E gli capita spesso di incontrare sul pianerottolo il Cavaliere…

Com’è avere il premier per coinquilino?
«Divertente, perché ogni tanto lo incrocio in ascensore. Lui sta al secondo piano, io al quinto. Succede parecchie volte che l’ascensore si fermi al suo piano. E Berlusconi, che è piuttosto prepotente, mi tira fuori per far entrare qualche ospite, e mi trattiene qualche minuto».

A fare che?
«A farmi un comizio».

E lei?
«Gli dico: “Vabbè presidè, ma che me li fa a fare ‘sti comizi».

Comizi su che?
«Una volta si lamentava di DAlema e io lì a dirgli che non c’entro più niente con lui, che è finita ‘sta storia. Durante il governo Prodi, si lamentava di Casini».

L’ultima volta che vi siete incrociati in ascensore?
«Un mese fa. Sono andato proprio da lui, perché dovevo parlargli di una cosa».

Di che?
Risata.

È andato a chiedergli di entrare nel PdL?
«Figuriamoci! Per amore di Dio!».

Insomma, che vi siete detti?
«Lui mi ha detto che il giorno prima era stato al San Raffaele per il suo mal di schiena, e che gli hanno detto: “Lei ha una macumba addosso”».

Non ha mai provato a tirarla dentro il centrodestra?
«Il problema non si pone, io ormai sono fuori dalla politica, non ho nessun rapporto né con il Pd né con il PdL. Berlusconi però è convinto ancora che i comunisti siano capaci di grandi macchinazioni».

Quindi lei è ancora comunista.
«No, è Berlusconi a considerare comunisti tutti quelli che non sono al suo seguito. È proprio la sua ossessione. Non che abbia torto, perché il comunismo ha fatto guai inauditi. E ogni volta che mi vede, sempre la stessa storia: “Voi chissà che state macchinando”. “Ma io non c’entro niente” cerco di fargli capire, “che comunista e comunista, che me ne importa a me. Anzi”, gli dico ogni volta “mi faccia fare qualche affare”».

Mai fatto affari con Berlusconi?
«Mai».

Mai?
«Una volta, molti anni fa, sempre in questi nostri incontri in ascensore, siccome volevo fare un business a Mosca, scherzando gli dissi: “Presidè, ma perché non ne parla a Putin?”. E lui: “Certamente, gliene parlo a Pasqua”».Silvio Berlusconi

Lo fece?
«Macché».

Racconti di quella volta che le fece visitare la sua casa a Palazzo Grazioli.
«Fu magnifico. Andai con Antonio Polito a presentargli il Riformista – io in quanto editore, lui in quanto direttore – il giorno prima che nascesse. Berlusconi prima ci fece il solito comizio e poi ci portò a visitare la parte privata dell’appartamento. Ci condusse fino al bagno».

Il bagno?
«Il bagno. E dietro la porta del cesso c’era attaccato il contratto con gli italiani. Disse: “Vedete? Io non penso altro che a questo!”. Polito, da giornalista, era fuori di sé dalla gioia».

E lei?
«Io, che ho un animo discreto, non volevo invadere la sua privacy, perché sa, al bagno si arriva dalla stanza da letto».

Com’è la stanza da letto del Cavaliere?
«Molto pomposa e barocca. Tutto l’appartamento ha un arredamento molto neoclassico».

Cosa la colpì di più?
«La quantità di foto di famiglia sparse per la casa. Ma soprattutto il fatto che quest’uomo così potente, ha sempre uno squarcio di umanità tenera».

Tenera?
«La grandezza di Berlusconi è il suo tratto umano, la sua simpatia, la sua affabilità. Una volta, con una tenerezza da fanciullo, mi fece vedere l’album di foto scattate a Marrakech, per la festa che regalò a Veronica, con lui vestito da arabo».

Ha ispirato lei il look a Berlusconi. Quando lanciò la maglia a girocollo ad Anacapri, lui lo seguì a ruota.
«La prima volta che lo vidi col pullover gli dissi: “Finalmente, presidè!”. Lui mi raccontò che si era tolto la cravatta, perché i fans gliela tiravano e lui rischiava di strozzarsi. Meraviglioso!».

Quando lui sfoggiò la bandana a Porto Rotondo, lei portava lo zuccotto già da un pezzo.
«Certamente».

Mica andava così “scaciato” quando era il consigliere del premier…
«Fui l’ispiratore anche del look di quell’altro».

“Quell’altro” sarebbe Massimo D’Alema?
«Certo. Lui era una tragedia, vestiva con delle orribili giacche a quadri di stampo rumeno. Fui io a portarlo dal sarto a Napoli. Ma poiché DAlema è un primo della classe nato, dopo un po’ cominciò a fare il super esperto di look. Addirittura, una volta, andò da Bruno Vespa e durante la trasmissione gli disse: “Questo è un finto tre bottoni”, come se stesse parlando Giorgio Armani Pierre Cardin. Quando lo presi in consegna, vent’anni fa, non sapeva cosa fosse una giacca».

Chi glielo diede in consegna?
«Me lo presi io. Nel 1988, dopo essere stato un dirigente in carriera del Pci, avevo deciso di mollare la politica perché mi ero rotto i coglioni. Decisi di fare il giornalista, divenni l’addetto stampa di DAlema. E mi inventai la famosa storia dello staff».

Che non era molto apprezzato, perché nel partito era considerato poco democratico.
«I maggiorenti volevano riunirsi in venti e decidere come condizionare il segretario: questa per loro era la democrazia. Il mio intento era quello di costruire una squadra intorno a DAlema proprio per difenderlo dall’establishment del partito».

Il suo ruolo di consigliere di D’Alema era ufficiale o ufficioso?
«È sempre stato a metà. La difficoltà del mio ruolo era nella sua ambiguità, che io ho pagato, perché ero quello che mediava di meno».

Velardi “testa di cuoio”.
«Ero il più scatenato di tutti contro gli avversari di DAlema. Ero quello che più degli altri cercava di spingerlo a prendere posizioni estreme».

Si rasò a zero per entrare nella cricca dei dalemiani?
«Punto uno: ero già calvo. Punto due: rivendico il primato. Rondolino, Minniti e Latorre sono arrivati dopo».

La rivalità tra voi “Lothar” sarà stata alle stelle…
«No, perché io, che ero il capostaff, diedi a ciascuno il suo ruolo. Un po’ perché non ho voglia di fare un cazzo, un po’ perché ho sempre pensato che si governa bene una squadra se si dà spazio alle persone».

Perché poi D’Alema, tranne Latorre, vi ha scaricati?
«Perché abbiamo portato fino in fondo anche antropologicamente – io più di altri – quella rivoluzione riformista che lui aveva iniziato e non ha avuto il coraggio di continuare».

Sta dicendo che D’Alema politicamente è un fallito?
«D’Alema storicamente ha perso. Agli inizi del ’96 lui poteva diventare il leader di questo Paese».

Perché non c’è riuscito?
«Perché non ha portato a compimento la sua battaglia culturale nel popolo della sinistra affinché abbandonasse una serie di luoghi comuni e liturgie. Lui stava lì lì per far diventare maggiorenne la sinistra. Poi si è ritirato perché si è scatenata la controffensiva».

Di chi?
«Del sindacato. Nel ’96 il punto di rottura fu Cofferati. Anche se il suo vero avversario nel partito è sempre stato Walter Veltroni».

Berlusconi dice che il leader del Pd è D’Alema.
«È vero. Anche se Veltroni sta conquistando armate di parlamentari, assessori, consiglieri comunali, DAlema resta il più forte e il più ascoltato nel Pd, perché in questo quadro deprimente è l’unico ad avere un guizzo di pensiero politico».

Lei che è stato il Richelieu di D’Alema, sa cos’ha in mente?
«Salvare il Pd dalla disgregazione. Ma non ha nessuna intenzione di diventare un leader di partito, bensì una riserva della Repubblica».

Secondo lei arriverà al Colle?
«Perché no? Se ci dovesse essere un declino del berlusconismo, la figura più forte e trasversale nel panorama politico italiano è DAlema».

Lei lo seguirebbe al Quirinale?
«Assolutamente no. Vivo felicemente facendo l’imprenditore. Adesso mi sono accollato ‘sto guaio di Napoli, ma è una parentesi. Ho visto il potere da vicino, non ho proprio più nessun’ambizione politica».

Perché ha lanciato una lista civica? Chi la conosce dice che lei mira a fare il sindaco di Napoli…
«Ma quando mai…».

Mai accarezzato l’idea di fare il governatore?
«Per l’amore di Dio! Fare il sindaco potrebbe anche essere divertente, ma governare una Regione è una rottura di palle micidiale. Ho promosso una lista con le migliori energie della destra e della sinistra, perché il Pd a Napoli è bruciato e nel PdL non c’è una sola personalità in grado di governare questa città. Subito dopo, però, me ne tornerò a Roma in grazia di Dio».

Cos’ha votato alle ultime elezioni?
«Non voto dal 2001, perché nei vari traslochi ho perso la tessera elettorale ».

Che ne sarà del Pd dopo le Europee?
«Il sistema politico si è talmente avvitato su se stesso che Ds e Margherita potrebbero scassarsi di nuovo. Certo, sarebbe una scempiaggine».

Come sono oggi i rapporti tra lei e “Baffino”?
«Non lo vedo dall’ultima campagna elettorale».

Le manca?
«Onestamente no, perché DAlema è una persona impegnativa. Mi manca la sua intelligenza politica. Ma non ho nostalgia degli anni a Palazzo Chigi».

All’epoca Guido Rossi disse: «A Palazzo Chigi c’è l’unica merchant bank in cui non si parla inglese». Si sentì chiamato in causa?
«Certo che sì. Lui era il consulente miliardario dell’allora Telecom e si sentiva giustamente colpito da quello che facevamo a Palazzo Chigi».

Che facevate?
«Non prendevamo le parti di chi voleva controllare Telecom pur avendo una percentuale infima di azioni. Sostenemmo l’azione dei “capitani coraggiosi”».

Si diceva che lei facesse il “lavoro sporco” per D\’Alema…
«Ho incontrato imprenditori, uomini d’affari. Ma quando uno ha detto che ero entrato a Palazzo Chigi con le pezze al culo e ne sono uscito miliardario, l’ho querelato».

Ogni riferimento a Marco Travaglio…
«Appunto. È chiaro che negli staff c’è chi fa i comizi e chi fa il lavoro di “cucina”: preparare provvedimenti, sentire gente, tessere rapporti…».

Ha mai organizzato tête-à-tête tra D’Alema e Berlusconi?
«Quando facevo politica attiva, sì».

Li ha mai fatti incontrare qui a Palazzo Grazioli?
«Nei primi anni in cui ero qui, dicevo a Massimo: “Ma non è il caso che vi fate ‘na chiacchiera?”, e ho fatto spesso da intermediario».

La sua società di marketing politico, “Running”, ha fatto corsi per politici del PdL?
«Uno per tutti, Nicola Formichella. Ma ho curato anche l’immagine di Andrea Ronchi e di parecchi sindaci di An e Fi».

Cos’è invece “Reti”?
«Una società che fa lobbying in maniera trasparente, con un codice deontologico».

Lei ha fatto lobbying anche per Alfredo Romeo. Perciò lo ha difeso a spada tratta?
«Sono un garantista. Lo conosco e penso che sia una persona per bene».

Lei è considerato il suo “gancio” in Regione.
«Se fosse stato veramente così, in tutte le tonnellate di intercettazioni che hanno fatto, pensa che non sarebbe uscito il nome di Velardi o quello di Reti?».

Lei è anche il solo a difendere Bassolino. Perché?
«Perché mi piace essere controcorrente».

Non crede che il governatore della Campania abbia qualche responsabilità dello scandalo della “monnezza”?
«Certo. Ma sono responsabilità politiche, che devono giudicare gli elettori».

Su Rosa Russo Jervolino c’è andato giù duro. Perché?
«Perché lei ha responsabilità amministrative molto serie. La Jervolino non ha il polso, la velocità che aveva Bassolino nel governare Napoli».

Lei non dà una buona immagine di sé nel voler difendere a tutti i costi la cupola del potere campano.
«Faccio così perché sono strafottente, sono snob».

Sarà per questo che D’Alema non si fida più di lei. Sa che la considera politicamente «un pazzo»?
«Sì, lo so».

Quando ha fondato il Riformista, D’Alema ha detto: «Meno male che il giornale lo fa il direttore e non l\’editore».
Risata sonora: «Lo disse, lo disse».

La prese come un’offesa?
«Come un complimento, semmai».

Che rapporto aveva con D’Alema quando era il suo consigliere?
«Lui, che di mattina tarda a carburare, mi ha sempre attribuito il seguente merito: “Velardi mi sveglia all’alba con cento cazzate, ma ce n’è sempre una buona».

L’ha mai mandato al diavolo?
«Per me era la norma. Io lo accusavo sempre di non spingere le sue innovazioni politiche alle estreme conseguenze, rompendo con la sinistra del partito e stringendo accordi con Berlusconi Casini».

E lui?
«Mi diceva che ero un fascista. E io gli rispondevo: “Sei un cazzo di comunista”».

Lei come nasce politicamente?
«Fascista, appunto. In contrapposizione a mio padre, che era un comunista, ma molto all’acqua di rose».

E quando venne fuori la sua anima leninista?
«Nel 1968, al Genovesi, il liceo classico di Napoli. Arrivai come un coglione, a 14 anni. Brufoloso e pure fascista. Con le ragazze era devastante. Mi diedi malato per una settimana. Tornai convertito al comunismo».

Cambiò anche look?
«Progressivamente mi feci crescere i capelli e acchiappai pure qualche guagliona».

Si rimorchiava di più da comunisti?
«Si rimorchiava solo se eri comunista».

È per rimorchiare che si è messo a fare il maratoneta?
«No, sono un neofita. Ho cominciato a 50 anni».

E da buon dalemiano è andato a farsi fare le scarpette computerizzate su misura in Inghilterra.
«Quando cominciai a correre, andai a Londra in un negozio che programma al computer le scarpe su misura».

Un’altra passione?
«L’Aglianico del Vulture di mia produzione. Con alcuni amici ho avviato quest’avventura imprenditoriale che ho mollato perché, da assessore al Turismo, avrei potuto rischiare un conflitto d’interessi».

Ha regalato bottiglie del suo Aglianico doc a Natale?
«A qualche amico e conoscente. Ma quasi nessuno mi ha risposto».

Nessuno, tranne la Jervolino.
«E lei come fa a saperlo?».

E non era proprio un ringraziamento…
«In effetti, no. Siccome io ero stato duro con lei, mi ha mandato una lettera molto incazzata rispedendomi indietro le bottiglie».