CV di CV

Sono nato a Napoli nel 1954, da genitori di cui ho inseguito le orme, in un modo o nell’altro. Da Francesco – mio padre, tipografo e piccolo editore – imparai a correggere bozze (la mia sola, acclarata professionalità acquisita) e a nutrirmi di libri e giornali, oggetti che continuo a frequentare. Maria Antonietta (per tutti Titty) – mia madre, prima concertista, poi insegnante di pianoforte – allevò il mio amore per il Clavicembalo ben temperato e per la musica di ogni genere, fin da quando mi teneva in pancia: passione mai coltivata con costanza, sfiorita in rimpianto con il passare del tempo. Loro due, e il resto della famiglia, mi regalavano affetto e fiducia illimitata: un combinato disposto che nel tempo sviluppò in me un’esagerata autostima e una decisa, parallela propensione al fancazzismo. (a sinistra: un capoccione nel carrozzino; al centro: io con i miei genitori, nonno Enrico e mia sorella Egidia – per tutti Gigia; a destra, primi esercizi di fancazzismo).

Ero considerato precoce e intelligente, ma già in adolescenza cominciai a essere perseguitato dal classico “potrebbe fare ma non si impegna”. Presi sul serio l’adagio e cominciai scientificamente a cazzeggiare, prima mettendo su un gruppo musicale (un “complesso”, così si diceva allora), poi dandomi alla militanza politica, infine abbandonando l’Università prima della laurea per diventare “rivoluzionario di professione” (funzionario prima nella FGCI, poi del PCI, con uno stipendio da V livello metalmeccanico).

Il mio percorso in politica fu scandito per 15 anni dalle regole della Ditta: obbedienza necessaria, piccole estrosità consentite, mai in eccesso. Ma io non ero abbastanza conformista (e neppure abbastanza preparato: lì dentro, oltre che compulsare tomi indigeribili, c’era l’uso di studiare leggi e dossier) per garantirmi un futuro sfolgorante: il mio profilo consisteva in una brillantezza un po’ vacua (questo me lo dico ora), fatta di battute più o meno vivaci e di citazioni piuttosto abborracciate. Caratteristiche che forse servirono a conquistare mia moglie – eccola, è dal 1980 che questa eroica donna mi sopporta – meno a convincere qualche grande capo a cooptarmi nelle alte sfere.

Così il cursus honorum procedeva senza picchi: dopo essere stato dirigente nazionale dell’organizzazione giovanile con D’Alema, ero diventato adulto nel partito a Napoli, prima scapicollandomi nell’area Nord della provincia per curare le sezioni, poi a occuparmi di propaganda e di cultura nella segreteria della Federazione. Quando cominciai a chiedere con insistenza da dove provenissero i nostri stipendi, un dirigente nazionale mi telefonò dicendomi: “Claudio, perché non vai in Basilicata a fare il segretario regionale? È una bella opportunità, che ne pensi?”. Io capii l’antifona e me andai a Potenza. Con il senno di poi, fu un’intuizione felice: di lì a poco, il vento dei finanziamenti illeciti avrebbe cominciato a soffiare nel PCI napoletano. In Basilicata, dal 1987 al 1990, trascorsi anni molto formativi. I 130 comuni della regione me li girai praticamente tutti, al ritmo di 140-150mila km all’anno in auto, e l’esperienza politica e umana fu importante e ricca. Ma quando un altro dirigente nazionale mi chiamò per consultarmi sull’opportunità di cambiare il nome del partito, gli risposi: “Ci stiamo ancora a pensare? Sbrighiamoci, ché stiamo morendo…”, e mi fu chiaro ciò che da tempo rimuginavo. Una storia intera stava finendo, per me – non potendo cambiare nome – era il momento di cambiare vita.

Alla mia nuova stagione pensavo da tempo. Volevo diventare giornalista, era la mia ambizione da quando scrivevo sul giornalino di classe delle elementari. Non fu semplice, perché il mio praticantato all’Unità fu osteggiato per motivi correntizi da un politico (Macaluso) di cui poi diventai grande amico, ma fui salvato in corner da D’Alema, che mi nominò suo capufficio stampa alla Camera, e che poi seguii quando diventò segretario del partito. Dove in sostanza continuai a fare politica, ma ritagliandomi un ruolo “tecnico” con il famigerato staff, quello dei “Lothar”. In sostanza una struttura che rispondeva solo al segretario, il quale decideva tutto bypassando i maggiorenti del partito, con il vantaggio di potere attribuire le responsabilità di ogni misfatto allo staff di cui sopra. E spesso a me, che, dentro Botteghe Oscure, ero il più odiato. Ma mi divertivo molto. Furono meno divertenti i 18 mesi trascorsi a Palazzo Chigi, dove ci trasferimmo armi e bagagli nel 1998. Volevamo rifare l’Italia da capo, ma il paese reale ci indusse a più miti consigli. La fatica era tanta, i risultati scarsini. E io accumulavo esperienza, ma anche stress e chili in più. Per questo mi sentii davvero liberato quando il governo cadde. Lo stesso giorno dissi al mio capo che avrei cambiato mestiere, andando a fare il lobbista. Lui mi chiese: “Che vuol dire?”. Io gli risposi: “Non lo so bene”, e lo salutai. A D’Alema ho voluto bene.

Fatto sta che da allora la mia vita è cambiata davvero. Intanto perché ho cominciato a ridefinire le priorità. Ho scoperto la corsa, concludendo 7 maratone. Sono dimagrito, mangiando con più accuratezza (da vegetariano non talebano), fino a diventare per molti un fanatico salutista. Ho cominciato, finalmente, a pensare che la vita contiene una sterminata quantità di cose che non riguardano la politica e la dimensione pubblica. E sono decisamente più importanti. Il che non mi ha impedito di lavorare, e molto, da allora. Nel 2000 ho costituito la prima società di lobbying e public affairs (Reti) che si sia esplicitamente definita tale, portando allo scoperto un’attività che per molti era una cattiva parola. L’anno dopo ho creato Running, agenzia di marketing politico. E nel 2002 ho fondato “Il Riformista”, un quotidiano cui ho creduto molto. Poi, negli anni a seguire, ho creato blog (“The Front Page”, “Il Rottamatore” e altri), nel frattempo producendo qualche libro. Dopo “La città porosa” (1992) e “Communis patria” (1993), ho scritto “L’anno che doveva cambiare l’Italia” (2006), “Come si cambia” (2020), “Impressioni di settembre” (2022). E vado raccontando le mie esperienze ai ragazzi della Luiss, dove insegno da molti anni. Dal 2016 l’avventura che più mi prende è la Fondazione Ottimisti&Razionali, che già nel titolo mi descrive per quello che sono (al momento). Razionale, nel senso che mi sforzo di esserlo, non sempre riuscendoci. E ottimista. Perché chi guarda al futuro con ottimismo è già a metà dell’opera. Mentre i pessimisti – o quelli che si dipingono tali per moda, per snobismo, sostanzialmente per vigliaccheria – li trovo detestabili.