L’ambizione di una piazza

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Scusate se parto da me. Non amo le manifestazioni di massa. Non mi piacevano neppure quando ne facevo due o tre a settimana, negli anni in cui pareva che lo scendere in piazza fosse la gioiosa anteprima della presa di tutti i Palazzi del mondo. I cortei mi imbarazzavano: generalmente li accompagnavo guardandoli dal di fuori, camminando lungo i marciapiedi. Gli slogan non li urlavo mai: non che non li condividessi, è che – forse – un po’ mi vergognavo. Oppure semplicemente ero un po’ stronzo: non mi andava di confondermi del tutto con la massa vociante, volevo mantenere una mia presunta – assai presunta – autonomia. Comunque, quali che fossero – e siano – le ragioni di questa mia idiosincrasia, ecco, l’ho messo in piazza, per così dire.

Detto questo, rispetto al XX secolo – che è stato per definizione il secolo del protagonismo delle masse – le manifestazioni da cui siamo periodicamente circondati nell’era del web hanno caratteristiche del tutto diverse. In quelle passate ci si mobilitava contro un nemico (più saremo domani in piazza, più si avvicina il momento in cui lo cacceremo) e per un obiettivo, fosse anche il più improbabile (anzi, più era improbabile e lontano, più appariva fascinoso e incontrovertibile). Oggi eventi e comizi vengono convocati per dire “abbiamo dimostrato di esserci”, come ha confessato candidamente un dirigente Pd dopo la manifestazione di sabato scorso. Affermazione che sintetizza bene le ragioni per cui è stata convocata un po’ di gente a piazza del Popolo: siamo all’opposizione ma non sappiamo bene che fare, indiciamo una manifestazione, così chiamiamo a raccolta i nostri e vediamo l’effetto che fa.

Che effetto volete che faccia? Gli iscritti al partito vengono compulsati, si organizzano pullman per una gita a Roma (sperando che sia bel tempo), i discorsi fluiscono più o meno nel disinteresse generale, ma con gli applausi tutti al punto giusto, alla fine viene sparata ai media una cifra inattendibile e non verificabile di presenze, e il giorno dopo sui giornali il cerchio viene chiuso: pacche sulle spalle tra dirigenti (visto, ce l’abbiamo fatta…), rabboniti i militanti, tacitati commentatori e critici. Per qualche settimana si respira, fino al prossimo incidente di percorso, fino allo scontato riemergere della domanda classica: “E ora, che fare?”.

Direte che il mio è cinismo nei confronti del sacro e inviolabile sentimento della partecipazione popolare, o magari malanimo verso un partito che spesso prendo a bersaglio, forse perché l’ho frequentato in tempi lontani. Vi assicuro che non vale il secondo argomento, perché la considerazione su questi raduni vale per chiunque li promuova. Quanto al cinismo, io trovo che sia cinico organizzare tutto un ambaradan per potersi poi dire “abbiamo dimostrato di esserci”. Vi piacciono le piazze? Riempitele di ambizioni, non di coscritti.