Altri diranno – andando in profondità e con competenze adeguate – della storia di tenace rinnovatore della sinistra, servitore delle istituzioni e uomo di Stato di Giorgio Napolitano. Anche se ci vorrà tempo – e un sufficiente distacco dalle misere peripezie della quotidianità – per gettare uno sguardo d’insieme obiettivo sulla vita di un protagonista assoluto della storia della Repubblica.
Io posso solo pronunciare parole minori e fare ricorso all’aneddotica per spiegare cosa è stato Napolitano per me, giovane militante dello scorso secolo educato alla severa scuola del comunismo italiano, maturato nella sua area di influenza politica, ma sufficientemente intemperante da meritarmi più volte rimbrotti o veri e propri cazziatoni (espressi in modi pacati ma all’occorrenza gelidi) da parte sua.
Forse la prima volta che Giorgio si accorse di me fu durante una riunione successiva alla sconfitta elettorale del Pci del 1979, una di quelle frustranti analisi del voto di cui la sinistra era (ed è ancora) specialista. In tempi di compromesso storico e solidarietà nazionale, io pronunciai un discorsetto favorevole alla creazione di un’alternativa di sinistra e a un rapporto privilegiato con il Psi; fui accolto da un cospicuo applauso della platea, nel gelo della nomenclatura provinciale, ma ebbi l’onore di una misurata citazione nelle conclusioni di Napolitano, che si disse parzialmente d’accordo con me, facendo intendere che del tema – che per lui sarebbe poi diventato cruciale – bisognava discutere sul serio.
Da allora i miei rapporti con lui divennero più frequenti. Da funzionario di partito, lo accompagnavo spesso in provincia, ed era davvero una gran fatica: mentre me lo scarrozzavo in una scalcinata Fiat 850 grigio-topo temendo imprevisti vari – che non mancavano negli informi ingorghi delle periferie napoletane – ero tenuto a rispondere con precisione alle sue incalzanti domande sul tasso di disoccupazione a Casoria e sulle possibili soluzioni della crisi della ex-Rhodiatoce. La mia tensione si scioglieva solo quando, di ritorno a notte inoltrata, gli facevo incontrare i suoi due amati Umberto: il delfino Ranieri e il prediletto Minopoli. A casa mia, a cena, Giorgio si concedeva qualche confidenza sul partito e sul suo necessario rinnovamento politico. I due Umberto interloquivano con lui. Io ascoltavo, affascinato, intimorito e stravolto dalla stanchezza.
Quando poi, negli anni successivi, “tradii” la componente migliorista, di cui lui era nume tutelare, per collaborare con D’Alema, Napolitano mi opzionava, di tanto in tanto, per criticare questa o quella posizione del partito o del governo, inviandomi brevi e puntute lettere scritte con calligrafia ordinata e sghemba: messaggi di cui mi facevo portatore con scarso successo – anche se tra i due c’era un rapporto di grande rispetto – presso il mio dante causa. Venivano fuori, in quelle circostanze, le eterne aporie del dibattito tra i riformisti italiani: la forza dei contenuti e le scarse truppe al seguito; l’audacia delle intuizioni e la timidezza nel metterle in pratica; l’attitudine suicida a dividersi su bagattelle nominalistiche e di potere e il conseguente rifiuto di affidarsi a leadership effettive e durature. Si trattasse di Craxi, di D’Alema, poi di Veltroni o di Renzi.
O anche – forse soprattutto – di Napolitano, che il riconoscimento del suo indiscutibile ruolo l’ha conquistato tardi – fuori dall’opprimente recinto del partito – quando è salito sul Colle più alto, rimanendovi per nove, cruciali anni, occupando la postazione più adeguata – a mio avviso – per una personalità dalla cultura ricca e versatile, maniacalmente rispettosa delle istituzioni come solo un ex-comunista italiano poteva esserlo, mai uomo di parte in senso stretto. Ed è infatti negli ultimi anni che lo ricordo – quando capitava di vederci d’estate, a Capri o a Stromboli – più sereno e indulgente verso il mondo e verso sé stesso, forse anche intenerito dall’età: era consapevole di aver vissuto, il compagno Napolitano, una vita intensa e appagante. Io sono uno dei tantissimi che l’hanno ammirato, ascoltato, seguito, temuto. Ed è stata una bella fortuna: sarà difficile dimenticarsene.