Countdown – 15/10/2016
Faccio una specie di stupida scommessa con me stesso e una provocazione verso chi mi segue con costanza indomita: vediamo se riesco a scrivere ogni giorno qualcosa di sensato sulla campagna referendaria, da qui al voto. 50 giorni sono tanti, di referendum sono piene le cronache già da mesi, chissà che cosa si inventeranno politici e giornali per non ripetersi. E che cosa dovrò inventarmi io.
Intanto, per cominciare: da qui al voto ci sono la legge di stabilità e le elezioni americane, che allenteranno un po’ l’ossessione referendaria. Meno male. Poi altri eventi arriveranno a fare le prime pagine, speriamo non cose brutte. Il punto è che il sistema politico-mediatico non può reggere concentrandosi per mesi e mesi su un unico argomento. Sono i cittadini, giustamente, a non volerne sapere. Come ha detto uno che se ne intende, il vecchio B., la gente comincerà ad occuparsi di referendum 20 giorni prima del voto.
Di qui un piccolo consiglio a tutti (un po’ di più ai miei amici del sì). D’accordo, diamoci da fare con iniziative, parlando con la gente, costruendo comitati (e anche sul web, purché vengano da tutti emarginati i micidiali Napalm51). Ma tenendo presente che la strada è lunga, bisogna avere fiato. Una buona parte degli elettori deciderà la mattina del 4 dicembre, nel tragitto dalla casa al seggio (non è un’esagerazione, lo dicono studi approfonditi!).
Tutto è referendum – 16/10
Il Governo ha licenziato una legge di stabilità da 26.5 miliardi con dentro parecchie cose buone (il pacchetto sull’industria in primis), aggiustamenti sulle pensioni, l’abolizione di Equitalia, misure di spesa a favore di diverse categorie di cittadini. Una finanziaria elettorale, fatta così in vista del referendum, tuonano tutti: chi per protestare vibratamente, chi ammiccando alla furbizia di Renzi. Ma, senza il referendum, ne avremmo avuto un’altra, impostata con diverse priorità e scelte? Nessuno può saperlo: non c’è controprova, naturalmente. Intanto il grande bias parte: invece di discutere delle cose (della loro bontà o dei danni che produrranno), si strologa sulle intenzioni recondite, sui messaggi nascosti dentro le cifre.
Obama invita Renzi alla Casa Bianca, per la sua ultima cena ufficiale da Presidente con un leader straniero. Il capo del Governo italiano ci va e fa una cosa carina: si fa accompagnare da quattro eccellenze femminili e un paio di registi. A sentire tutti, un’altra mossa elettorale. Renzi vuole sfruttare l’occasione per portare voti al Sì. Non si sa bene come, non è chiaro quale associazione potrà nascere nella testa della gente tra la riforma del Senato e il pranzo di gala di martedì prossimo. L’importante è inoculare il virus del sospetto.
Da qui al 4 dicembre, tutto sarà referendum, miei cari. Per non fare scattare il bias, il governo dovrebbe, che so io, limitarsi all’essenziale, al day by day. Renzi non dovrebbe uscire di casa. E a quel punto tutti a protestare: avete visto, hanno paralizzato il paese per mesi e mesi. Per uno stupido referendum. Rassegniamoci a questo stanco conformismo, e continuiamo a vivere.
I due fronti (e vari furbetti) – 17/10
Questo delle brutte facce contrapposte è un gioco che non mi piace, da qualunque parte si svolga. Se un referendum è la scelta tra due opzioni, è evidente che la mela elettorale si spaccherà in due. E ognuno si collocherà da una parte o dall’altra, accompagnandosi a temporanei compagni di viaggio più o meno piacevoli. Demonizzare il Sì o il No sulla base dei politici che li sostengono è operazione banalmente propagandistica e, a mio avviso, inutile. (Così come è stupido immaginare che gli italiani voteranno in un modo o nell’altro solo per gli endorsement favorevoli di personaggi pubblici o del mondo dello spettacolo).
Su un piano più politico, al di là delle raccolte di faccine, c’è poi chi sostiene (D’Alema e altri) che in particolare questo referendum è sbagliato perché spacca in due il paese. Dimenticando che è così – appunto, by definition – in tutti i referendum. A partire dal più importante, glorioso e politico di tutti, quello del 1946 (Repubblica 54,3%, Monarchia 45,7%) ai tanti già svolti. Si rassegnino D’Alema e le preoccupate prefiche del “paese irrimediabilmente spaccato”. Un referendum così funziona.
Infine, sempre partendo dall’ipocrita preoccupazione sulla divisione del paese, c’è chi in questi giorni sta trovando il posizionamento più brillante e comodo. Siccome il referendum spacca, siccome è personalizzato su Renzi, siccome le domande non sono poste con chiarezza, siccome non si sa che cosa succederà dopo, siccome non si sa che legge elettorale si farà, siccome il dibattito referendario è confuso, siccome la gente non capisce, meglio buttare la palla fuori campo. Come fa per esempio ieri su Repubblica Michele Serra, che conclude la sua dolente nota quotidiana con un vigoroso “Abbasso il referendum”. Siccome siamo in Italia, terra di furbetti e infingardi, vedrete quanto crescerà questa nobile corrente di terzisti, di qui al 4 dicembre.
A tutti, propagandisti e tifosi, opportunisti e furbetti, direi una cosa semplice. Con serenità, senza arrampicarvi sugli specchi, scegliete quale opzione preferite, se possibile andando al merito delle cose. Se poi sto referendum non vi piace in sé, statevene a casa. Magari in silenzio. Evitando di fare la morale a coloro che hanno voglia di scegliere il futuro dell’Italia.
Le piccole cose belle – 18/10
Ieri, in treno, ho visto su Fb Bebe Vio con il vestito che stasera indosserà alla Casa Bianca, e ho pianto. Mi sono commosso per la bellezza, la gioia, l’amore per la vita che questa ragazza esprime, e che oggi donerà a tutti, nella cena con Obama.
Nel corso della giornata, e poi leggendo stamattina i quotidiani, il vecchio cinico che è in me ha preso il sopravvento: “Certo, una buona mossa di comunicazione questa cena alla Casa Bianca, le eccellenze italiane, l’endorsement di Obama… sto Renzi è sempre un bel paraculo…”. Ma alla commozione di ieri ho continuato a pensare, facendomi delle domande semplici. Insomma, conta di più la felicità schietta, solare, sacrosanta di Bebe in foto o il racconto comunicativo e mediatico che le costruiamo intorno? Sono più vere le mie lacrime o le riflessioni a seguire, le ricostruzioni, i perché reconditi dell’evento di stasera ?
Non mi date risposte complesse o dotte. Sappiamo che siamo tutti immersi in una spirale comunicativa senza troppe vie d’uscita. E sappiamo che il rapporto tra i fatti e la loro rappresentazione penalizza sempre la realtà. Ma guardate che fa bene alla salute e al cuore, almeno qualche volta, cercare di andare alla sostanza delle cose. Che in questo caso è la seguente: c’è una straordinaria ragazza di 19 anni felice di partecipare ad una cena con il Presidente Obama, c’è il nostro capo di governo che stasera porta alla Casa Bianca il volto bello del nostro paese.
PS. Direte che questa storia non c’entra niente con il 4 dicembre. Per me sì. Almeno se ha un fondamento una convinzione che ho già espresso, e cioè che il referendum è una sfida tra chi decide di investire sulla fiducia e chi, invece, non se la sente di farlo.
Istruzioni per la campagna – 18/10
Qualche settimana fa mi chiamano a discutere di referendum in una città del Nord. Una cinquantina di persone si interrogano con passione e preoccupazione sui contenuti della riforma. Funzionerà, e come, il nuovo Senato? Perché le regioni a Statuto speciale restano tali? Come si comporteranno gli elettori leghisti? Le domande fioccano e – come accade in questa fetta di mondo de sinistra che conosco bene – tendono a tradursi prima in astruse teorie e subito dopo in devastanti autoflagellazioni (non ce la faremo, abbiamo sbagliato qui e là, etc…). Ad un certo punto interrompo la seduta di autocoscienza, e piuttosto bruscamente li invito a smettere di discutere per organizzarsi, uscire fuori e parlare con un po’ di gente, ché altrimenti le flagellazioni vere arriveranno il 5 dicembre, e saranno dolori.
Nei giorni scorsi scopro che persone a me mooolto vicine si sentono anche tre-quattro volte al giorno a telefono per mettere su un comitato per il sì, alternando lunghe valutazioni sui talk Tv della sera prima a elenchi piuttosto risicati e selettivi di amici da invitare. Si prepara una serata in una bella casa napoletana, il cui esito sarà – scoprirò poi – una vivace e sostanzialmente inutile discussione tra persone che si conoscono e hanno opinioni già radicate e infrangibili. Cercare modi e forme per parlare con gli altri, con le persone che stanno fuori del bel salotto? La cosa si sta studiando.
Ieri sera mi sono affacciato in un localino romano assai figo, dove si teneva una assai figa iniziativa per il sì, con importanti e qualificate presenze, e con annessa performance conclusiva di uno stimato professionista in veste di musicista. Tutto molto carino. Salvo che il tempo e le risorse impiegate avrebbero reso cento volte di più se spese in un mercato rionale.
Sia detto con affetto a tutti (parlo di amici, tra i soggetti non citati c’è finanche mia moglie, figuratevi…). Datevi una mossa. Le campagne elettorali non si vincono così, ma conquistando i voti uno ad uno, andando voracemente in cerca di quelli che, al momento, non sanno, sono incerti o contrari.
If – 20/10
Non è solo per il vecchio adagio (“La storia non si fa con i se e i ma”) che la congiunzione “se” va usata con cautela. E’ che, soprattutto in questa campagna, le molte ipotetiche vengono usate come clave, e questo non aiuta la famosa “discussione sul merito” (spesso invocata dagli stessi che un minuto dopo si lanciano in accuse apocalittiche).
Neppure conta sapere chi ha cominciato per primo. “Se vince il sì, si profilano rischi per la democrazia”. “Se vince la carovana di D’Alema, tornano i vecchi arnesi di una volta”. “Se passa Renzi, siamo nelle mani di JP Morgan”. “Se vince il no, restiamo fermi altri 30 anni”. Sono tutte esagerazioni, approssimazioni, rozzezze propagandastiche. Comunque finisca, la democrazia non corre alcun rischio (è già malmessa di suo), il vecchio personale politico non tornerà (l’Italia, nel caso, scenderebbe in piazza tutta intera), non ci sono poteri forti in azione (magari se ne vedesse qualcuno all’orizzonte), il paese camminerà più lento o più veloce ma non si bloccherà, dal 5 dicembre in poi.
Però attenzione. Perché in queste ore rischiamo di passare dal “se” apocalittico alla totale anestetizzazione dell’appuntamento: è la tipica schizofrenia dell’informazione che produce questi salti. Ad esempio stamattina sul Corriere l’ottimo Ricky Levi ci dice che possiamo votare serenamente perché la Bce continuerà senza problemi la sua politica monetaria e che per i mercati non cambierà nulla, qualunque sia il risultato (il che contrasta con quello che gli stessi analisti sostengono esplicitamente). Poi, sul piano politico, fornisce addirittura una scaletta di lavoro a Mattarella in cinque punti, dovesse vincere il no (il tutto prescindendo dalla volontà dei diversi protagonisti in campo).
Consiglierei maggiore equilibrio. Il 4 dicembre è un appuntamento importante. Non si capirebbe, altrimenti, per quale motivo ne stiamo parlando da mesi e continueremo a farlo per altri 45 giorni almeno. Non si capirebbe la forte attenzione delle cancellerie del mondo intero per la scadenza.
Magari, cercando un punto d’accordo per tutti e tornando ai benedetti “se”, potremmo solo dire che se vince il sì, si va incontro ad un cambiamento (che, naturalmente, può avvenire in meglio o in peggio). Se vince il no, non succede niente. Continua tutto come prima. A domani.
Il si cresce – 22/10
Oggi quasi tutti i sondaggisti danno in rimonta il sì. Su Repubblica Demopolis lo colloca addirittura in vantaggio (51 a 49), per Ipr è ad un’incollatura (48,5 a 51,5). Altri (Amadori 48 a 52, Ghisleri 47,5 a 52,5) lo vedono comunque in crescita sulle passate rilevazioni. Solo Piepoli registra distanze più o meno inalterate (46 a 54).
Attenzione però, cari amici del sì. Grande attenzione. Intanto sappiamo quanto i sondaggi siano inaffidabili, per mille ragioni. Innanzitutto, alle indagini rispondono mediamente 1-2 italiani su 10. Per avere grosso modo 1000 sondati ne devi sentire 10mila: 9mila ti mandano a quel paese. Per questo decisivo e indiscutibile motivo i sondaggi non hanno alcuna evidenza scientifica. Possono, sì, riflettere delle tendenze. Ma solo quando costruiscono una coerente e significativa serie storica. Cioè, se per tre-quattro settimane di seguito, il sì cresce nelle stime, si può immaginare che il trend sia fondato. Non che siano fondate le cifre, ma la direzione di marcia. E poi ricordate che i sondaggi sono sempre più spesso puri strumenti di marketing. Quando ne leggete uno, chiedetevi sempre chi l’ha pagato e perché. Dato che a gratis un sondaggio nessuno ve lo fa.
Con queste premesse (scarsa profondità delle ricerche, volatilità, uso strumentale etc…) diciamo che una tendenza intercettata nei sondaggi può essere generosamente interpretata come l’aria che tira: un venticello impalpabile che soffia in un pezzo informato dell’opinione pubblica e in uno strato alto dell’atmosfera politico-mediatica, composto da quel milieu di giornalisti, commentatori, opinionisti, consulenti, politici, addetti ai lavori che si dà la voce con ripetuta autoreferenzialità, rimbalzando su un giro poco più largo. Un giro del cui fiuto è il caso di sospettare assai.
Che vi possa essere un trend positivo del sì, dopo le montagne russe dei mesi scorsi (prima il gran vantaggio, poi il crollo), è possibile: l’opinione pubblica funziona a ondate successive, e sempre più rapide e contraddittorie. Che la diffusione di questi “dati” possa contribuire a creare ulteriori flussi favorevoli (il famoso effetto bandwagon) ci sta. Ma è bene ricordare l’ovvio: la “società di sotto”, la maggioranza silenziosa, la pancia dell’Italia, quella non risponde ai sondaggi e al momento non sappiamo neppure lontanamente cosa farà. Perché non ha deciso, non è informata, si occupa (giustamente) della vita di tutti i giorni, sceglierà solo quando dovrà. Probabilmente quando uscirà di casa per andare ai seggi.
Più seria e interessante è invece la ricerca di Pagnoncelli sul Corriere della Sera, che continua a vedere distanze rilevanti tra sì e no (46 a 54), ma soprattutto mette a fuoco la composizione degli elettorati. Qui leggiamo dati più attendibili. Sono in maggioranza per il sì i laureati, il Nord-Ovest e il Centro-Nord, gli ultrasessantaciquenni. Il No prevale nel Nord-Est e al Centro-Sud, nella fascia di età tra i 35 e i 49 anni, tra i più giovani, tra i meno scolarizzati. Questa indagine dà anche indicazioni concrete, perché dice quali sono le aree in cui concentrarsi. Il sì, come è chiaro, deve cominciare (cominciare, perché al momento non la sta facendo) la campagna al Sud, deve penetrare negli strati della popolazione meno acculturati e distanti, e parlare, con i linguaggi giusti, alle nuove generazioni.
Al lavoro, dunque. E nessuna illusione. (Ricordando peraltro che è presto, molto presto, e l’onda buona – che c’è – può tranquillamente cambiare direzione).
La grande saggezza – 23/10
Leggete, vi prego, queste poche righe ad una ad una. “Di Renzi apprezzo la sua smodata determinazione a cambiare l’atteggiamento rinunciatario di molti italiani. Disfattisti sino all’autoflagellazione. Rassegnati a dire no a tutto: no all’alta velocità, no alle Olimpiadi. Ma l’alta velocità è bellissima, in un’ora vai da Roma a Napoli. E mi fa uscire pazzo che una donna più giovane di me come Virginia Raggi sia contro i Giochi olimpici. Come fa una trentenne a non guardare al futuro?”. I Cinque Stelle non la convincono? “Per niente. Mi preoccupano. Dare addosso a un altro è molto più facile che costruire qualcosa: mi pare un’ingenuità non da poco che se ne accorgano solo adesso”. Al referendum cosa voterà? “Non lo so ancora. Mo’ comincio a studiare”.
Concetti semplici, parole forti e pacate, buonsenso, profondissima e antica saggezza. E’ aria pura l’intervista di Paolo Sorrentino sul Corriere della Sera di stamattina (e dice cose bellissime anche sul suo cinema e sulla sua vita). Ora, ve lo dico con sincerità (insomma…): non mi interessa come voterà Sorrentino, tantomeno se davvero si studierà la riforma. Vorrei solo che i miei connazionali ragionassero tutti con un centesimo della sua apertura mentale e della sua libertà di spirito.
Cuperlo – 24/10
Nessuno mi faceva ridere come lui. Era – parlo di venti anni fa, quando lavoravamo insieme – di un umorismo freddo, irresistibile. Una maschera alla Buster Keaton, il racconto paradossale, tempi teatrali, battute al momento giusto. Anche scritte: ci mandavamo pizzini durante le riunioni, i suoi erano surreali e feroci.
Leggeva libri: anche di quei tempi una rarità, nell’ambiente che frequentavamo. Narrativa un po’ retro o di battaglia (gialli, noir, pulp), e ogni tanto mi consigliava scrittori interessanti (devo a lui, che so, la scoperta di Winslow); saggistica un po’ polverosa, perché non andava al di là dei confini ideologici che si imponeva.
Poi era “quello che lavora”, diceva il nostro capufficio. Uscivamo dalle riunioni di staff, io distribuivo compiti evitando accuratamente di prendermene, lui si sedeva ordinato e buttava giù quintali di parole che io limavo di brutto e il simpaticone che ci guidava a stento degnava di uno sguardo.
Quando capitava – raramente – di affrontare discussioni serie, tra noi venivano fuori diversità più culturali che politiche. Antropologiche, a usare una parola grossa, visto che lui veniva da Trieste e io da Napoli. E che, per dirla con Umberto Saba, “Trieste è, per così dire, l’antinapoli, dove (intendiamo a Napoli) i nervi si distendono e le complicazioni della vita appaiono meno tragiche”.
Ora Gianni – in questi giorni nelle vesti dilaniate del mediatore di bottega, alle prese con un ruolo politico che non è il suo – dovrebbe ripensare alle parole di Saba, dismettere il volto compunto e ipocrita della tragedia, iniettarsi un po’ di buonsenso, tornare a ridere. Non c’è Sturm und Drang nella ridicola melina della minoranza Pd, ma solo piccole convenienze personali di piccoli e vecchi apparati. Li abbandoni al loro destino, si metta finalmente a capo della sinistra poetica del partito e accompagni il ruvido capo del Pd in questi 40 giorni di battaglia. Comunque vada, per lui ci sarà spazio e rispetto.
Sud, territori e democrazia – 25/10
Dopo 30 anni torno ieri sera a Casoria per un dibattito sul referendum, a combattere con il mio amico Massimo Villone che difende il No. I presenti sono divisi grosso modo in due fette, anzi tre: una metà di ex-Pci divisi equamente tra Sì e No (esattamente come erano divisi 30 anni fa tra riformisti e duri e puri), l’altra metà di nativi (non all’anagrafe…) Pd, più schierati con il Sì. Provoco bonariamente tutti, confessando che non riesco a prendere molto sul serio la discussione sul voto quando entra nei mille tecnicismi e nelle previsioni su “quello che accadrà se”: cose su cui è scolastico e inutile almanaccare. Il punto è piuttosto capire come ognuno di noi sceglie di vivere questo passaggio, se investendo e rischiando sul futuro, oppure arroccandosi a difesa di antiche certezze sempre più vacillanti. Anzi palesemente morte, inservibili coperte di Linus.
Villone fa la parte del professore, come è giusto che sia, poi però cerca l’affondo su un tema che più politico non si può: con la riforma i territori non conteranno più niente, le decisioni saranno prese centralmente, in barba a partecipazione, democrazia, protagonismo dal basso. Avverto che quest’argomento fa una certa presa e penso a come replicare. Giustificare, spiegare, raccontare il bello e il buono dei referendum propositivi, della semplificazione e del nuovo titolo V? Oppure dire la verità, ma quella vera?
Opto per la seconda strada, con qualche incertezza. Non so come sarà presa la mia filippica su globalizzazione, fine degli Stati-nazione, necessità di leadership e di capacità di decisione per tornare competitivi. Scelgo il tono più dolce che mi riesce (ehm…), e poi faccio ricorso all’esempio più concreto che mi viene in mente. Siamo a Casoria, nell’hinterland napoletano, a pochi chilometri dalla cosiddetta “terra dei fuochi”. Parlo di monnezza, caso limite e tipico di una democrazia che non decide e si piega a quella sciagurata sindrome Nimby di cui siamo succubi. Niente sotto casa mia. Niente termovalorizzatori, perché devono decidere i territori, che non li vogliono. Di conseguenza niente soldi, perché li spendiamo per portare i rifiuti in Olanda, in Portogallo e in Lombardia, dove con i rifiuti creano ricchezza. E niente lavoro, visto che i soldi li buttiamo felicemente dalla finestra, invece di destinarli allo sviluppo. Così come – mi allargo – niente Tap in Puglia perché devono decidere i territori. E quindi niente gas. Niente petrolio in Basilicata, perché devono decidere i territori. Quindi: niente ricchezza, niente sviluppo, niente lavoro. E così via. “Fecero un deserto e lo chiamarono Mezzogiorno”, direbbe Tacito se ascoltasse le voci dei mille No che risuonano in omaggio alla democrazia dei territori, quasi sempre sostenuta e fomentata da politici locali demagoghi e vili.
Concludo, e dal calore dei saluti finali ho l’impressione che la filippica abbia funzionato, che per molti sia stata liberatoria (“Finalmente uno che è venuto a dirci come stanno le cose…”). Gli altri accusano il colpo. Ma gli abbracci tra i reduci si sprecano. Alla prossima, vecchia Casoria.
Non so quanto valga l’esempio, ma da ieri sera penso più di prima che nella campagna referendaria al Sud non bisogna indorare la pillola. Agli elettori bisogna dire la verità sulle ragioni di fondo di una riforma che, in tanti campi concreti, può rendere finalmente possibili decisioni effettive e rapide. Fiduciosi che, anche al Sud, la gente capirà.
PS. Ragazzi, oggi è il mio compleanno. Sono inondato di mail e sms, di messaggi su Fb, Twitter, Watsapp, Messenger, etc… Non posso ringraziarvi tutti uno ad uno. Lo faccio qui, scusandomi con chi non mi leggerà (peggio per loro…). Grazie davvero.
Una discussione surreale – 26/10
Dobbiamo ancora parlare dei sondaggi elettorali? Del loro dimostrato, continuo fallimento? E del perché falliscono sempre (base limitata e fallace dei sondati, scarsa credibilità dello strumento, poche risorse a disposizione, imperizia tecnica di chi li somministra)? Basta scorrere i giornali nei giorni successivi ad una qualunque elezione degli ultimi 15 anni per avere prove inconfutabili e definitive della morte di questo tipo di indagini.
Eppure, esattamente all’avvicinarsi di una nuova prova elettorale, tutti tornano a compulsare e soprattutto a diffondere sondaggi. E una ragione c’è. Sono diventati strumenti di marketing. Puri strumenti di marketing. Servono a generare l’idea che uno schieramento sta vincendo, contando poi sul cosiddetto effetto bandwagon, per il quale la gente va a votare per quella che ritiene essere l’opinione della maggioranza. Che è però solo uno dei sentimenti – diversi e anche opposti (l’underdog, il lethargy, la spirale del silenzio, la profezia che si autoavvera, etc…) – che si agitano nell’opinione pubblica alla vigilia di un voto. Fenomeni più sofisticati e che agiscono più in profondità dell’antico, banale e stranoto carro del vincitore.
E comunque, passi pure che i tifosi si gasino leggendo gli zero virgola dei sondaggi e li usino come clave. Ma quando sono dei professionisti dell’informazione e un economista ad esercitarsi nella surreale commediola riportata in basso, capirete che un attimo di sconforto può sopraggiungere.
Il rutto di Cioffi – 27/10
Da ieri sera molti si indignano e crocifiggono il senatore del M5S Andrea Cioffi, autore di un misero tweet. Non partecipo al rito perché non mi piacciono le crociate, ma anche perché, al momento, non mi aspetto niente di meglio dal movimento. Non ho grandi frequentazioni grilline, non conosco questo Cioffi, e qui non si discutono le caratteristiche delle persone: è che la sua uscita è strettamente legata ad un modo di essere strutturale, e attualmente irriformabile, del M5S.
La questione è semplice: se il pubblico di riferimento, la costituency dei grillini è fatta di webeti e Napalm51 (il geniale personaggio creato da Crozza), le battute o i concetti da usare sono quelli di Cioffi. Li puoi ovattare e burocratizzare (nella versione Di Maio) o enfatizzare piagnucolando (linea Di Battista), ma quelli sono. E infatti di casi Cioffi, cioè di volgarità gaffes e catastrofiche minchiate, sono piene le cronache grilline in rete.
C’è un’alternativa possibile? Sì, solo se i grillini decidono di crescere, di maturare politicamente (quello che sono costretti a fare i sindaci). Ma, se crescono, il loro pubblico va altrove, la loro costituency prende altre strade. E quindi? Quindi niente: il destino dei populisti è questo, sempre e dovunque. O crescono e cambiano. O finiscono nel buco nero della suburra della rete.
Nella società postpolitica e postverità, partiti (tutti, sia chiaro: compreso e a partire dal Pd) e media possono ritrovare un ruolo solo se stanno uno o più passi avanti alla gggente, se promuovono crescita civile e culturale senza appiattirsi su luoghi comuni e sentimenti di pancia, se maturano il coraggio di posizioni controcorrente.
A questo possono servire i giorni che ci separano dal voto referendario. C’è ancora tempo per far prevalere una grande e pacata campagna di educazione civica sui temi che contano, silenziando il rumore di fondo dei rutti à la Cioffi.
Il gigante della politica – 28/10
Sui loro giornali Feltri, Ferrara e Travaglio parlano del dibattito Tv di stasera tra Renzi e De Mita con accenti diversi, ma sempre presentandolo come il confronto tra un giovane arrembante, di cui si dice male spesso e volentieri, e un gigante della vecchia e nobile ‘arte della politica’. Purtroppo del gigante in questione nessuno dei tre ricorda atti concreti, riforme importanti, leggi che ci hanno cambiato la vita. Che infatti non ha mai prodotto. Mentre nel suo lungo curriculum vitae si stagliano, come stelle luminose:
- l’invenzione dell'”arco costituzionale” (1967), che lo rese simpatico alla sinistra comunista e gli consentì di ritagliarsi negli anni ’70 uno spazio di potere dentro la Dc come leader della corrente di Base;
- l’ascesa al comando del partito nel 1982, che portò l’anno successivo la Dc alla sua prima catastrofica sconfitta elettorale;
- la rivalità feroce con Bettino Craxi negli anni ’80, sempre a sostegno delle cause più conservatrici;
- la nomina a capo del governo nel 1988, dove rimase per 13 mesi senza lasciare alcuna traccia;
- la presidenza della Commissione bicamerale per le riforme nel 1993 e le dimissioni arrivate dopo soli sei, improduttivi mesi;
- il ritorno, a cavallo del nuovo millennio, nella sua ridotta in Campania, dove cementò un solidissimo sistema di potere nella fallimentare sanità regionale, spartendosi tutto lo spartibile con Bassolino. Per poi intronarsi, ai giorni nostri, come sindaco a Nusco.
Altro non ci sarebbe da dire del gigante. Se non che sono certamente gigantesche la sua presunzione sconfinata e la indubbia tendenza alla chiacchiera autoreferenziale. Dote, quest’ultima, che condivide con diversi colleghi giornalisti.
Padri e figli – 29/10
Ieri sera ho seguito un talk politico, il match Renzi-De Mita, dall’inizio alla fine: non mi succedeva da anni. L’ho trovato interessante, quasi da studiare e da sceneggiare, per come ha simbolicamente messo in scena il più classico dei conflitti: quello tra un padre e un figlio.
I due hanno cominciato parlando dell’Italia. La provenienza comune dalla stessa, grande famiglia politica ha consentito di incastonare il tema del conflitto (il referendum) in un contesto storico appropriato, gettando uno sguardo sommario su questo settantennio: sulla crescita, sui suoi limiti. Soporifera per i ritmi televisivi, la prima parte del talk ha definito con onestà il campo da gioco del confronto e l’obiettivo di fondo del figlio: cambiare rispetto al passato.
Al figlio scalpitante, il padre ha cercato in prima battuta di far fronte con una strategia comprensiva e inclusiva, dicendosi pronto a discutere di cambiamenti, quasi proteso verso un sì che non poteva pronunciare, finanche ammettendo di non conoscere granché della riforma di cui si discute. L’obiettivo era tenere il figlio dentro i confini del suo mondo, del mondo che lui conosce, cercando di impedire strappi.
A questo punto, il figlio ha fiutato il rischio del gioco avvolgente del padre, e l’ha rotto nell’unico modo poco simpatico ma possibile: attaccandolo direttamente, personalmente. Il problema non è (solo) il tuo mondo, sei tu. Con la tua storia, la tua biografia, la tua politica a vita, il tuo attaccamento al potere. In sintesi: vai rottamato perché quel mondo che non mi piace l’hai costruito tu.
Qui il padre ha capito che la rottura si era consumata. Si è offeso, sono volate parole grosse: la serata è diventata pesante e imbarazzante. Ed è scivolata piuttosto livida verso la conclusione, con il padre che insultava il figlio che tradisce, e il figlio a guardare altrove, perché di famiglia vuole costruirne una nuova.
La conquista della maggioranza silenziosa – 30/10
La vera campagna elettorale di Matteo Renzi è cominciata ieri, con la mobilitazione della fanteria in piazza; continuerà la prossima settimana, quando il rito iniziatico della Leopolda rimotiverà le sue truppe scelte; si svilupperà con il salto di qualità che ha annunciato dal palco. Basta web, andiamo a prenderli a casa, gli elettori. O, più civilmente, invitiamoli a cena a casa nostra.
Ogni sacrosanto giorno che passa, in particolare da quando mi sono inflitto la condanna del countdown quotidiano, mi chiedo quali effetti produce il nostro smanettamento referendario h.24. Certamente ne produce di ottimi: le informazioni circolano, le relazioni crescono, si creano comunità, si mettono a fuoco temi, si comprendono e si contrastano quelli degli avversari, circolano video, nascono slogan. Il risultato è che si rafforzano le nostre convinzioni. Ma pure – amici miei – quelle dei nostri avversari. Perché – soprattutto in un’occasione plasticamente divisiva come un referendum, e tanto importante – lo scontro in rete si radicalizza in un amen: dalle posizioni sui problemi si passa ai giudizi sulle persone e alla disanima delle biografie, alle rivendicazioni di coerenza, alle accuse di tradimento e di collusione, infine agli insulti. E il web diventa il gigantesco teatro di guerra di eserciti irragionevoli e faziosi. Mentre una maggioranza silenziosa, online e nelle strade, assiste allo scontro e nessuno sa che cosa pensa.
Naturalmente la questione non è – intendiamoci bene – abbandonare la rete, che è l’ambiente in cui tutti sguazziamo. O sminuire la sua importanza nel creare flussi di opinione. Il punto è utilizzarla in modo intelligente. Capire quando, come e dove mirare per fare breccia. Intercettare coloro che davvero vogliono capire, approfondire, farsi un’idea. Ma poi schivare la rappresentazione, abbandonare a se stessi i rissosi, evitare autoincensamenti (come siamo bravi, #avantitutta #bastaunsì, Sììììììììì, etc…) e condanne (siete vecchi, tu stai con De Mita, allora vuoi i cinquestelle, etc…).
Insomma, utilizzate il tempo in rete nella maniera giusta. Poi fate quello che vi ha detto Renzi: invitate la gente a casa. E scoprirete cose che non immaginate. Fuori dalla giungla, i leoni del web vi sembreranno degli agnellini: incerti e pieni di dubbi, come tutti noi. Quelli che non sanno di Senato e titolo V – che sono la maggioranza – scoprirete che in realtà ne sanno più di ognuno di noi di tante cose. Perché non dimenticate che, al di là della rete (e del referendum), è lì fuori che c’è la vita.
Divisi e uniti – 31/10
Non solo oggi o domani, ma da qui al 4 dicembre sarà impossibile parlare di referendum senza pensare agli sfollati di Castelluccio e poi, in sequenza, ai morti di Amatrice, alla montagna spaccata di Castelsantangelo. E sarà impossibile non collegare mentalmente le immagini di questi giorni ai momenti devastanti che hanno segnato le vite di molti di noi (Abruzzo, Emilia, l’Aquila e, indietro nel tempo, Irpinia, Friuli, Belice…). Una catena sempre più fitta di eventi che ci consegna la realtà nuda e cruda di un paese che con i terremoti dovrà sempre più imparare a convivere, adeguando i sistemi educativi, la cultura della prevenzione, le tecniche costruttive, i piani urbanistici. E ridefinendo il nostro essere comunità.
Intorno ad un terremoto gli esseri umani non possono che unirsi. Il nemico è potente e oscuro e noi, per quanto potremo prevenire adeguare ricostruire, continueremo a non sapere quali saranno le sue prossime mosse, quando agirà e come. Di fronte ai suoi colpi ciechi e feroci, la cosa più stupida che la nostra comunità potrebbe fare è dividersi. Quella più giusta (ma anche ovvia) è mettere insieme le forze per rialzarsi dopo i colpi che riceviamo. Certi che alla fine la spunteremo noi e andremo avanti.
Ma un popolo unito, proprio in quanto tale, è anche capace di dividersi: la sua classe dirigente – se è tale – deve saper riconoscere le priorità. E’ cementata dai valori fondanti di ogni comunità umana e capace di affrontare insieme le emergenze, fiera di mostrare unità di intenti verso l’esterno, verso il mondo e nei confronti del popolo in nome del quale amministra. Poi si divide – con misura – nelle scelte quotidiane, nelle opzioni politiche, anche quelle di grande portata come un referendum costituzionale.
L’essenziale è che siano chiari i confini del confronto (dove finisce l’unità e comincia la divisione) e i toni, che invece devono essere sempre, nell’unità e nella divisione, civili, non enfatici, sobri. Innanzitutto per rispettare i nostri concittadini che soffrono. Per tutti, da qui al voto, la sfida nella sfida sarà questa.
Mahler e la grande stanchezza – 1/11
Le campagne elettorali hanno un andamento – come dire – musicale (così tendo a leggere il loro storytelling). Possono essere delle brevi e ritmate canzoni, con ritornelli e strofe che si alternano fino al crescendo finale. Spesso hanno un andamento rapsodico, senza schemi fissi, con molte variazioni e improvvisazioni. Questa che viviamo, a fare il gioco del “cosa sarebbe se”, somiglia senza dubbio ad una sinfonia. Dilatata, complessa, con molti e diversi movimenti, alternanze di temi, sfumature e sensazioni. Mi viene in mente la più lunga mai scritta, la Terza di Mahler, con il suo sterminato primo tempo, che dura più di mezz’ora, ed è solo una sorta di grande introduzione agli altri cinque tempi, nei quali la sinfonia entra nel vivo, fino a concludersi con questo meraviglioso, commovente adagio.
Ecco, non voglio scoraggiarvi, ma noi ci stiamo avviando ora verso la fine del primo tempo della sinfonia/campagna. Che entrerà nel vivo, grosso modo, dopo il prossimo fine settimana. Quando gli eserciti in campo metteranno a punto gli ultimi piani di battaglia, i calendari avranno una loro scansione più definita, e anche gli italiani veri cominceranno a ritagliarsi un piccolo spazio della loro attenzione da dedicare all’appuntamento.
Noi – che italiani veri non siamo, perché siamo militanti, osservatori, tifosi, addetti ai lavori – siamo già stanchi, diciamo la verità. Logorati da polemiche sfiancanti, trollati nella rete a prevalenza webete, persi nei meandri degli azzeccagarbugli costituzionali. E scossi dai terremoti che non si fermano, dai problemi reali, dalla difficile vita quotidiana. Ora rischiamo di ritrovarci muti, di perdere la parola proprio mentre gli altri, quelli normali, cominciano a volerne sapere qualcosa, di questo benedetto referendum.
E allora fate questo esercizio, oggi che è festa e avete un po’ di tempo in più. Godetevi l’Adagio conclusivo della Terza, che nelle intenzioni di Mahler rappresenta qualcosa come la nascita della vita. Immaginate che sia la mattina del 5 dicembre, che questa maratona sia finita. E che l’abbiate pure vinta. Il modo migliore per ricaricare le batterie.
PS. La proposta di ascolto vale per tutti, comunque la pensiate. Per dire, l’Adagio della Terza può far bene anche a quella senatrice che polemizza sulle magnitudo…
La soggezione psicologica del sì – 2/11
In democrazia tutto è possibile. Anche che il referendum del 4 dicembre, che da mesi e mesi calamita l’attenzione pubblica, venga spostato all’ultimo momento. Così funziona la divisione dei poteri: un cittadino presenta un ricorso contro l'”eterogeneità” dei quesiti referendari; un Tribunale valuta se il ricorso è fondato; nel caso lo ritenga, il voto slitta. Questo può accadere nei prossimi giorni.
Però, nel nostro caso, il cittadino ricorrente, Valerio Onida, è non solo un Presidente emerito della Corte Costituzionale, ma anche un importante esponente del No, animatore di Comitati, protagonista del dibattito referendario. Si può quindi immaginare, senza nulla togliere alla fondatezza giuridica del ricorso, che il buon Onida conti sul suo accoglimento per rinviare il voto ed evitare una sconfitta del No il prossimo 4 dicembre.
Un’illazione maligna? Può darsi. Ma in una campagna elettorale ci sta che diventi argomento polemico. Ci sta che qualcuno dica a Onida: “Ma ti rendi conto? Con il tuo ricorso rischi di fermare la macchina organizzativa del voto (con il relativo spreco di risorse), di ribaltare l’agenda del paese da mesi proiettata sul voto referendario… è una cosa concepibile?… vuol dire proprio che il No ha una paura fottuta di perderlo, questo referendum”.
Qualche esponente del Sì ha detto una cosa del genere, magari urlando al tentativo di scippo del voto, al ricorso a mezzucci contro l’espressione della volontà popolare? Non poteva farlo, naturalmente, il Presidente del Consiglio, che ha il dovere, in un caso del genere, di tenersi fuori da ogni polemica (infatti ha detto “il rinvio è una boutade giornalistica”), ed è peraltro comprensibilmente impegnato a tempo pieno sul fronte terremoto. Ma dal suo esercito ci si poteva aspettare che almeno qualcuno sollevasse il tema. Invece niente: al contrario, dal fronte del Sì, si levano addirittura flebili voci favorevoli al rinvio del voto. Mentre il grosso tace. Per prudenza, per viltà, per paura?
Il paradosso è che ancora ieri sera l’ultimo sondaggio de la7 dà un lieve vantaggio del No, con una tendenza al recupero del Sì. Che può vincere, e anche bene, ma solo se si scrolla di dosso questa grave soggezione psicologica. Per dirla con parole semplici, bisogna essere più cattivi e determinati. Amici, tirate fuori le palle.
La spirale del silenzio – 3/11
Provate a intavolare una discussione in un luogo pubblico (o anche in una serata tra conoscenti) sul referendum. Sarete sommersi subito da un vociante coro di No. I Sì – quando li sentirete – vi appariranno fievoli, intimiditi. Qualcuno se la caverà dicendo “ci devo ancora pensare”, molti taceranno smarriti. Se dovessimo basarci sulle opinioni random, non ci sarebbe storia. Nella chiacchiera pubblica percepiamo il No molto più avanti che negli stessi sondaggi, dove invece il vantaggio risulta contenutissimo (e la cosa ci stupisce, proprio perché “sentiamo” poco il Sì tra la gente).
Quali sono le dinamiche sociologiche, comportamentali e psicologiche che scattano negli individui in circostanze simili? Perché alcune opzioni risultano più “dicibili” e pubblicamente spendibili di altre? Ce l’ha spiegato, in anni ormai lontani, una straordinaria ricercatrice tedesca, Elisabeth Noelle-Neumann, partendo da approfondite analisi sulla formazione dell’opinione pubblica, sul potere dei media e sui comportamenti politico-elettorali.
Il punto di partenza – cerco di farla facile – è che tutti gli esseri umani temono l’isolamento sociale, e fanno l’impossibile per evitarlo. Per questo esprimono liberamente le loro opinioni se le ritengono condivise, non lo fanno se temono che siano impopolari. La paura di essere criticati dagli altri, il desiderio di essere parte di uno schieramento vincente, la voglia non restare isolati dal proprio gruppo sociale: sono i motivi per cui un individuo non convinto delle ragioni altrui e timoroso di esporre le proprie, si rinchiude in quella che la Noelle-Neumann definisce la “spirale del silenzio”.
Già. Ma come si forma questa “opinione pubblica” conformista e pervasiva che spinge al silenzio i dissenzienti? Qui un ruolo fondamentale lo giocano i media. Per dirla in sintesi: i media decidono la gerarchia delle notizie, la cosiddetta agenda setting sulla base di quella che immaginano essere l’opinione diffusa (generalmente la più semplificata, la più appetibile, la più “populista”, etc…). Gli individui esprimono la loro opinione sulla base dell’agenda setting proposta dai media. I media trovano la conferma della loro agenda nelle opinioni dei cittadini. E così all’infinito, in un gioco di rimbalzi che rafforza il vociare dell’opinione dominante e approfondisce la distanza con chi la pensa diversamente.
Poi, alla fine, arriva il momento della verità, quando i cittadini devono esprimere la loro opinione nel segreto dell’urna. E spuntano le sorprese che – proprio in ragione di questi complessi fenomeni comportamentali e psicologici – quasi sempre smentiscono previsioni e sondaggi.
Uno contro tutti – 4/11
Con la netta presa di posizione di Berlusconi per il No e l’ennesima, violenta esternazione di Bersani, si definiscono i contorni degli eserciti in campo: contro la riforma ci sono, in sostanza, tutti i politici italiani. Dall’altra parte c’è Matteo Renzi. Ed è curioso, forse emblematico, che la certificazione avvenga proprio il giorno d’inizio della Leopolda, dove in fondo tutto cominciò sette anni fa. Di nuovo, come allora, uno contro tutti.
Ma com’è, giocare uno contro tutti? La prima sensazione – immagino, mettendomi nei panni dell’uno – deve essere di sgomento. Come posso farcela, se sono tutti dall’altra parte? Come rispondere al bombardamento quotidiano che mi arriverà da tutti i fronti? Mettendo al centro quali temi? Quali e dove sono le debolezze del nemico? E soprattutto: come costruire una strategia senza alleanze, senza amici, insomma senza nessuno che mi dia una mano? Roba da non dormirci la notte.
Poi, siccome la guerra c’è e arrendersi significa morire, il combattente pensa alla prima, forse unica mossa possibile contro il nemico. Che è tanto grosso quanto elefantiaco, stanco e goffo nei movimenti. Il problema è scavalcare le linee avversarie. Aggirare gli eserciti organizzati. Muoversi nella terra di nessuno. Trovare una sponda nella gente comune stanca delle guerre e degli eserciti che le fomentano. E prendere così il nemico alle spalle.
Facile a dirsi. Può riuscire se hai un gran coraggio e una ancora più grande incoscienza, se parli il linguaggio della verità alla gente stanca delle guerre, se ti presenti per quello che sei, per quello che hai fatto e soprattutto per quello che vuoi fare. La chiave è sempre questa: esporsi, mettersi in gioco. Fai questa semplice mossa e puoi vincere, uno contro tutti.
E se perdi, uno contro tutti? Beh, intanto ci hai provato. Certo non hai fatto brutta figura. E – visto che sei solo ma libero – sicuramente puoi ricominciare, questo è il bello.
Leopolda – 5/11
L’anno scorso non mi era piaciuta, la Leopolda. Un’aria da congresso di partito, rituali stanchi, un bel po’ di sottobosco paragovernativo a caccia di visibilità. Pareva un organismo giovane e già un po’ imbolsito: si percepiva il logorio di un governo sotto attacco, le difficoltà di una narrazione sospesa tra le grandi aspettative e la fatica delle realizzazioni. Pensai che non ci sarei tornato. Anzi dissi che bisognava sbaraccarla sta Leopolda, a meno che non cambiasse alle radici il format.
Poi, come sempre avviene, è intervenuta la realtà ad occuparsi di format (altro che comunicatori, esperti e guru), e l’appuntamento ha ripreso vita. Quest’anno è un’altra musica. Sarà che il programma si annuncia meno ingessato. Sarà che il sottobosco tende a defilarsi prudente in attesa degli eventi, e se ne vede poco. Sarà che il governo è talmente sotto attacco che chi lo difende si è deciso a sguainare le spade. Sarà, soprattutto, che è in arrivo il giorno del giudizio. Fatto sta che l’arietta che si respira è preoccupata ma compatta, e discretamente eccitata dall’avvicinarsi della prova della vita, il 4 dicembre. La voglia di darsi da fare si sente, si sprecano vigorose pacche sulle spalle, ci si scambia informazioni sui rispettivi territori: racconti di sondaggi volanti e da bar, ipotetici o farlocchi, resoconti di incontri con scettici e dubbiosi che servono a scaldare i cuori.
Insomma quest’anno funziona. L’organismo è vivo e lotta insieme a noi perché c’è una battaglia da combattere. E’ il senso della Leopolda, la sua natura: avere obiettivi visibili, chiamare mobilitazioni, toccare corde profonde. Altrimenti meglio stare a casa. Il termometro è mia moglie, che l’anno scorso non c’era venuta, stavolta sì. Sente come un dovere civile la battaglia del referendum, è impegnata come non accadeva da anni, e sa che il motore primo è dentro questa vecchia stazione ferroviaria. Ieri sera ascoltava il dibattito attenta e partecipe come solo le donne sanno fare, mentre io – as usually – facevo il buffone in giro prima della parentesi seria di oggi, quando discuterò al tavolo dell’energia di SEN e titolo V, di G7 dell’energia e di COP22. E forse ora è il caso che mi prepari un po’ per evitare brutte figure. Buona giornata.
Leopolda – 6/11
Voglio parlare bene, ma bene assai, della Leopolda di ieri. E quindi mettiamola così: criticoni preconcetti e malmostosi cronici saltino questo post. Si risparmieranno nuove incazzature ed eviteremo polemiche inutili.
Ai lettori ragionevoli – critici quando è il caso, ma sereni dentro – dico nella maniera più semplice che la giornata ha mostrato il volto fiero, consapevole e maturo di una bella comunità e di un partito moderno. Per quanto possa ricordare, non si sono mai visti dei governanti sedere per ore e ore a tavoli di lavoro del tutto paritari con militanti, simpatizzanti e cittadini, confondersi con i partecipanti fino a diventare fisicamente indistinguibili, discutere nel dettaglio delle attività di governo, sottoporsi al fuoco di fila di mille domande (parecchie anche oziose e petulanti, le ho sentite con le mie orecchie…). Un fittissimo dialogo fatto di condivisione dei problemi, comprensione delle difficoltà, sintonia negli obiettivi di cambiamento. Direte che dipingo un quadro idilliaco, ma mi sto limitando a descrivere quello che ho visto ieri mattina (e che ho sperimentato in prima persona al tavolo sull’energia cui partecipavo). Aggiungo – così la dico tutta – che forme simili di concretissima partecipazione non solo se le sognano quelli che oggi straparlano di “uno vale uno” e di democrazia in rete, ma neppure si potevano immaginare nelle ditte di un tempo, burocratizzate all’inverosimile, ottusamente gerarchiche, ossequiose verso i poteri costituiti, dove ai militanti veniva concesso il solo privilegio di cuocere salamelle e di omaggiare da lontano il segretario di turno. Ditte da consegnare, con i loro riti, simbologie e mitologie fasulle, alla muffa eterna.
Così come ho ascoltato nel pomeriggio – strutturato in forma più tradizionale – discorsi appassionati e forti, commoventi e divertenti: dalla fantastica, rocciosa Teresa Bellanova al surreale Della Gherardesca, in una gamma di testimonianze mai finte. Dove ha fatto la sua parte la brillante e didascalica guida alle bufale del No, orchestrata dalla Boschi con i costituzionalisti. E ha contribuito a creare il clima giusto anche l’annuncio che il mio amico Cuperlo non si chiamerà fuori (mi raccomando, Gianni, senza più tentennamenti!).
Ecco, ve l’ho sommariamente descritta come l’ho vissuta, la giornata. Molto di pancia e di cuore. Perché, vedete, il sopracciglio sappiamo alzarlo tutti: hai voglia a trovarle le cose che non vanno e non ci piacciono. Ma stavolta – sarà perché comincio ad avere una certa età – preferisco prendermi la libertà di dire ai quattro venti che l’antica, bistrattata politica può regalare ancora qualche ora di divertimento e interesse. Di questo ringrazio sentitamente la Leopolda 2016.
Leopolda – 7/11
Che strana sensazione. Leggendo i giornali stamattina, mi sono convinto che la Leopolda me la sono sognata. Eppure mi sento raffreddato per la pioggia che evidentemente ho sognato di aver preso a Firenze; la bilancia dice che sono ingrassato un chilo per le troppe ribollite; e ancora ricordo il discorso di Renzi, proprio come se lo avessi ascoltato. Addirittura – sempre in sogno, naturalmente – mi ero appuntato quelli che pensavo fossero i tre punti-chiave del suo intervento.
Per esempio il primo, che mi era piaciuto molto. Renzi diceva, a un certo punto: “Guardate che noi abbiamo solo cavalcato l’onda”. Intendendo dire una cosa essenziale: siamo arrivati al governo perché abbiamo intercettato la protesta montante dell’opinione pubblica contro quelli che c’erano prima. Forse ci siamo arrivati presto. Forse ancora impreparati. Ma abbiamo dovuto farlo, altrimenti l’onda avrebbe travolto tutti. Ecco, questa mi era sembrata un’affermazione responsabile e intelligente, che spiegava tante cose. In sogno pensavo che qualche commentatore capace avrebbe potuto ragionarci su, per spiegare lo stato di necessità vissuto in questi due anni. Per dire, uno bravo come Giovanni Orsina sulla Stampa, che invece stamattina se la prende con il caratteraccio di Renzi.
Poi Renzi ricordava che, una volta al governo, questa nuova classe dirigente si era messa al lavoro facendo un po’ di cose buone, e ne parlava diffusamente. Ora andava ammodernato il sistema con la riforma della Costituzione: un cambiamento cui si opponevano – legittimamente – quelli di prima. Così arrivava alla frase centrale del discorso, pronunciata con grande enfasi: “Il referendum non è tra due Italie, ma tra due gruppi dirigenti”. Una cosa piuttosto banale: in sogno mi sembrava così vero che a dire No sono tutti quelli lì (vi risparmio l’elenco). E che, quindi, il 4 dicembre fosse chiara la posta in gioco. Non una partita interna al Pd ma tra due modi di vedere l’Italia. “Una sfida tra cinismo e speranza, rabbia e proposta, nostalgia e futuro”. Belle parole: mi dispiace, amici, ma Renzi non le ha mai pronunciate, secondo i giornali.
Infine, parlando ad un pubblico appassionato e foltissimo, ho sognato che il premier diceva: “Io mi fido di voi”. Aggiungendo, grosso modo: “In questo mese mettetevi al lavoro, costruite comitati, parlate con la gente comune, etc…”. Concetti che un capo rivolge al suo popolo, sentendosi tranquillo, legittimato, forte. E ho sognato che la platea applaudiva caldamente lui, senza inveire contro qualcuno. Malgrado quelli del Pd che – come dire – non lo amano, organizzano comitati per il No, e lo riempiono di insulti ogni giorno.
Anche questo era un sogno, amici. Meno male che stamattina i giornali mi hanno risvegliato raccontandomi la verità. “La platea scatenata: fuori la minoranza Pd”. “Epurazioni da II Repubblica”. “Nel Pd lo spettro della scissione”. “Il capolinea della sinistra”. Renzi, dopo aver spaccato il paese, ora ha spaccato il partito. Ieri a Firenze è finita la sinistra, per mano di un gruppo di invasati. Per fortuna ci sono i giornali a darti il pizzicotto mattutino.
Il Mostro – 8/11
Che la folla vociante del “fuori fuori” non sia mai esistita. Che sia stato un solo signore pelato di Maratea (definito da chi lo conosce “il Paolini della Basilicata”, per il suo teatrale presenzialismo) a urlare “cacciali fuori” e poi a insistere sul tema. Che Renzi abbia risposto al signore “qui non cacciamo nessuno”. Tutto questo non interessa a Bersani, Speranza e agli altri che stamattina versano quintalate di lacrime sull’accaduto e giocano a fare i martiri.
Il punto, amici miei, – e lo dico seriamente – è che hanno ragione loro. Perché la comunicazione è un mostro, anzi il Mostro, e quando i suoi micidiali meccanismi si innescano, non puoi fermarli. Furbi (in malafede, certo, ma tant’è…) Bersani e Speranza a sfruttare il caso. Inutile, purtroppo, intestardirsi per ristabilire la verità.
So che non vi piace questo discorso. So che giudicate vergognoso e immorale il comportamento dei giornali e dei politici che speculano. E che alla verità ci tenete. Ma dovete rassegnarvi e attrezzarvi di conseguenza. Non dicendo bugie e comportandovi come loro, ma cercando di cavalcare e domare il Mostro, almeno nei limiti del possibile.
Per esempio provando sempre ad immaginare il dopo, non lavorando solo sul prima o sul durante. Cioè non esaltandoci per il funzionamento e la bellezza di un evento, di un nostro atto comunicativo, ma cercando di prevedere che cosa provocherà, quale sarà la sua ricaduta sui media, ai quali bisogna sempre dare qualcosa in pasto. Perché il Mostro deve essere alimentato, vuole carne fresca e sangue. E, nei giorni scorsi, non gli potevano bastare il ritorno di Richetti, i sorrisi tra Agnese e la Boschi, gli interventi di Cucinelli e Farinetti. Delle tante cose belle della Leopolda il Mostro non aveva che farsene. Lui va in cerca di teatri di guerra, ha bisogno di duelli cruenti, vuole il Nemico a tutti i costi. E quando non ce l’ha, se l’inventa. Proprio come è accaduto nelle scorse ore.
Dunque archiviamo la bella pagina della Leopolda sapendo che a casa è tornato un esercito più motivato che mai e ricordiamoci che nei prossimi 26 giorni cammineremo sulle uova. Non dovremo sbagliare un colpo. Essere non solo più bravi e capaci, ma anche più furbi degli altri.
PS. E togliamoci dalle palle il tizio di Maratea.
Trump e Renzi – 9/11
Ha parlato la realtà, fregandosene (naturalmente) dei sondaggi, dei giornali e dei media, del politicamente corretto, delle aspettative di tutti. Non vi piace la realtà? Mi dispiace, non è permesso. La realtà si assume per quella che è. Sforzatevi di capirla, non sbatteteci contro.
Negli Usa ha perso l’establishment, e la tendenza pare globale. Tutti noi siamo immersi nel futuro ma ne abbiamo paura, perché il futuro corre troppo veloce. I vecchi modelli di rappresentanza non funzionano più, e i governanti tradizionali non hanno risposte da dare al mondo nuovo. Per questo andiamo in cerca di nuove leadership, nuovi modelli politici e di governance, nuovi linguaggi, nuovi comportamenti.
Dopo Brexit e gli Usa, il 4 dicembre sarà la volta dell’Italia. E il vento antisistema soffierà anche qui. Ma qui una leadership antiestablishment ce l’abbiamo: Matteo Renzi non è la Clinton. È un giovane premier che cerca di innovare il sistema contro l’intero personale politico e di governo del passato. Contro la compagnia dei nostalgici, dei rancorosi e degli sfasciacarrozze.
Con la vittoria di Trump, la campagna referendaria può diventare più limpida e chiara. A condizione che il Sì non si metta a fare la guardia al bidone vuoto del sistema. Non c’è niente da difendere, non bisogna temere i barbari alle porte. Sarebbe sbagliatissimo chiedere un voto dicendo “altrimenti finisce come in America”. Qui il vecchio sistema è tutto dall’altra parte. Il Sì italiano è il cambiamento possibile, a portata di mano.
Euristiche e vecchia sinistra – 10/11
Ogni volta che può esultare per una sconfitta, la vecchia sinistra – giusto per toccare l’apice del godimento masochistico – sostiene che bisognava andare più a sinistra per vincere. Lo ha detto ieri Bersani parlando delle elezioni Usa (“Sanders non avrebbe perso, ci scommetto”), capeggiando una vasta coalizione (Civati, D’Attorre, Ferrero) cui Fassina ha fornito il surreale supporto ideologico: “La vittoria di Trump è la sconfitta del neoliberismo”.
Non varrebbe la pena discutere di queste sciocchezze, se non fosse che questo genere di sinistra – minoritaria, confusa, élitaria, molto mediatica – fa più danni di quanti voti riesce a raccogliere (assai pochi). Perché fa leva sulla nostra naturale pigrizia mentale, e alimenta un bias che impedisce la comprensione di fenomeni nuovi, dell’inedito, dello sconosciuto. E’ una classica “euristica della rappresentatività”, diffusa nella sinistra dei luoghi comuni e delle nostalgie: una distorsione che affronta problemi simili e/o ricorrenti (nel caso in questione la sconfitta, la perdita di voti, etc…) con una risposta tranquillizzante e stereotipata (“siamo stati poco di sinistra”), ignorando le informazioni che ci dicono altro (le esperienze passate di candidati de sinistra, la sconfitta di Sanders alle primarie, la vittoria di un tycoon che più liberista non si può, l’effettiva distribuzione dei voti, il massacro dei topoi del politically correct, etc…).
Questo blocco mentale e psicologico impedisce a molti di pensare liberamente e di contribuire alla riscrittura del profilo di una sinistra moderna. La malafede di Bersani e degli altri sta nel fatto che lavorano su questi luoghi comuni non perché vi credano, ma solo per mantenere piccole rendite personali e di potere.
E ora la realtà – 11/11
Ora è venuto il momento di cambiare marcia, amici del sì. Per mesi abbiamo studiato, ristudiato e compulsato la riforma. Ci siamo abboffati di artt. 70 e 117: ormai siamo tutti dei discreti costituzionalisti. I professori, poveri, hanno esaurito i ricorsi a disposizione. Del combinato disposto, finalmente, non si parla più: l’oggetto del contendere – la riforma della Costituzione – è chiaro. Quanto agli schieramenti in campo, li vedete plasticamente: o quelli di prima o il futuro. Come le opzioni in ballo: cambiare o lasciare le cose come stanno. I dibattiti Tv proseguiranno, ma l’essenziale l’abbiamo visto. Dei giornali possiamo fregarcene. Non sono annunciate prossime direzioni del Pd. La Leopolda c’è stata, con soddisfazione dei più. E’ stato eletto Trump, e ce ne faremo una ragione. Tra un po’ anche i sondaggi ufficiali non ci allieteranno più le giornate. Avremo quelli clandestini – e sarà una dura guerra di nervi e cifre farlocche – oltre ai personali fondi di caffè di D’Alema, che ieri ha sentenziato: “Il Sì sarà travolto” (e questo è – ammetterete – un buon viatico…). Dunque ora non resta che fare la campagna.
Parlo però della campagna vera. Quella che si fa uscendo dal web, dai talkshow, dai giornali, dai salotti autoreferenziali, dalle discussioni accademiche, dalle dispute sui commi della riforma, dalle manifestazioni di partito. E’ il momento di passare al corpo a corpo. E’ il momento di passare dal virtuale al reale.
Nessun equivoco. Il web va presidiato: non bisogna lasciarlo ai leoni da tastiera e agli haters, vanno contrastate mistificazioni e bufale. Ma non possiamo passarci le nostre giornate, pensare di esaurire in rete la nostra militanza. Così come non voglio negarvi il piacere masochistico del talkshow serale, con annesso scambio compulsivo di tweet. O la lettura dei giornali, se proprio non avete di meglio da fare. O una corposa manifestazione, dove bearvi della condivisione con altra bella gente delle vostre convinzioni.
Ma il punto di fondo, da qui al 4 dicembre, è un altro. E’ uno e uno solo: parlare con gli altri, con la gente comune, con quelli che non conosciamo, che incontriamo per caso. Avviare una chiacchiera con le persone che incrociamo in ufficio, al bar, nella metro, al mercato e spostare con intelligenza e misura il discorso sul referendum. Capendo sempre chi abbiamo di fronte e modulando l’approccio. Scegliendo i temi da sollevare guardando in faccia l’interlocutore e cercando di intuire i punti di attacco più efficaci. Mai apparendo come dei crociati fanatici e ossessionati. Mostrandoci sempre come persone serene e ragionevoli, aperte all’interlocuzione e al dialogo.
Ieri ho detto in un tweet che mi piacerebbe vedervi tutti per strada con una spilletta del Sì attaccata al bavero o alla borsa, pronti e disponibili a discutere con chiunque delle nostre ragioni. Facciamolo, nei prossimi 23 giorni, superando ritrosie e timidezze, uscendo dalle catacombe dei dibattiti e dalla lente deformata del web. L’esito del voto sarà quello giusto se i militanti del Sì si mostreranno a tutti come persone in carne e ossa che vanno incontro al futuro con serenità e fiducia.
Il feticcio dell’unità – 12/11
Mentre voi, sciocchini, state a discutere di populismi, protezionismi, sovranismi, globalizzazione, operai della Rust Belt e rivolta delle classi medie, la risposta a Trump la indica stamattina Ezio Mauro su Repubblica. Basta che Bersani e Renzi si incontrino a Palazzo Chigi impegnandosi solennemente a modificare la legge elettorale, andando incontro ai desideri della minoranza della Pd, e il gioco è fatto. A quel punto per Trump e Orban, Grillo e la Le Pen non ce ne sarà più. E si potrà votare sì al referendum. Uniti.
Al di là della confusa sovrapposizione dei piani e del suo evidente tatticismo strumentale, dietro l’idea di Mauro si agita un intero universo simbolico, in cima al quale sventola il vecchio feticcio dell’unità della sinistra. Uniamoci perché il nemico è alle porte, arrocchiamoci dentro le nostre certezze, sbandieriamo ai quattro venti la nostra identità e il nemico sarà respinto.
Sarebbe bello, ma non funziona così. Se il mondo cambia, il problema della sinistra non è unire le forze per opporsi al cambiamento, ma studiare il cambiamento, capire in che direzione va. E cambiare se stessa, per cercare di guidarlo. Se ti unisci senza capire dove va il mondo, diventi rapidamente una forza residuale e nostalgica. Se cambi insieme al mondo, porti nel futuro il meglio del tuo patrimonio.
Per essere concreti, restando a Bersani. La sua piattaforma – quella famosa della mucca nel corridoio – è “attrezzare una sinistra larga che abbandoni le retoriche blairiane delle opportunità, delle flessibilità, delle eccellenze e scelga la strada della protezione sulla base dei propri valori di uguaglianza”. Insomma la ricetta di Sanders, Corbyn e di tutti coloro che in questi anni hanno portato la sinistra al macero (Blair – giusto per ricordarlo – ha governato, e bene, per 10 anni). Mentre invece una sinistra moderna – a mio modesto avviso – deve prevedere il superamento di ogni forma di illusorio protezionismo, l’apertura al mondo globale, l’invenzione di ricette nuove per far fronte alla disoccupazione, politiche che favoriscano il merito, l’inclusione, la mobilità. L’esatto contrario delle ricette populiste ma anche qualcosa di molto lontano dal formulario della vecchia sinistra.
Quindi unità, ma per fare che? Per stare a proprio agio nel futuro, cercando di migliorarlo? O per difendere le proprie casematte diroccate? Il punto è questo. Con il referendum, cerchiamo di mettere in condizione l’Italia di competere nel mondo di domani. Se Bersani ci sta, è il benvenuto. La mucca vada a farsi fottere.
Gli umori del nonno – 13/11
Il nonno staziona con Tommaso in una libreria del centro storico, dove una simpatica fanciulla legge favole ad un gruppo di bambini. Per quanto innamorato perso del nipotino e molto preso dalla funzione pedagogica da assolvere, non può evitare la conta mentale che, di questi tempi, fa in qualunque luogo si ritrovi: voteranno Sì o No i presenti? (Sì, il nonno ha una malattia grave, ma è inutile che glielo ricordiate…).
Avvia l’indagine con un certo pessimismo. Gli stereotipi mediatici dicono che nel consesso il Sì non dovrebbe andare granché: età media 35-45, in parecchi hanno un’arietta vagamente alternativa, qualche papà ha il volto imbronciato e assente, qualche mamma è fin troppo partecipe, e si inorgoglisce ad ogni cenno di attiva partecipazione del suo pargolo. In generale il nonno se li figura sommamente disinteressati alla riconfigurazione della disciplina normativa nel rapporto tra Stato e Regioni, con relativo superamento della materia concorrente. Infatti, concluso il silenzioso e circospetto poll, il risultato è impietoso: su 14 presenti, attribuisce 2-3 voti al Sì, 4-5 al No. La maggioranza a votare non ci andrà proprio, pensa (per fortuna, aggiunge).
Poi succede che, finita la mezz’ora di tormenti letterari, andando via, il nonno ascolta uno scambio di battute tra due dei genitori che aveva etichettato e bollato come noisti. “Ma tu vai a votare per il referendum?”, fa il primo. “Sì, e che vuo’ fa’ turna’ a D’Alema?”, risponde quello che nel casting immaginario gli pareva il più truce di tutti; nelle sue fantasie malate se lo era figurato bene a urlare in un corteo antiRenzi. Così prende per mano Tommaso, e se ne torna a casa sollevato.
Ma a via Toledo è sua moglie a rovinare tutto. “Ha chiamato Xxxxxxxxx, sai che mi ha detto? Che Xxxxxx Xxxx – hai capito chi è? – vota No…”. “Ma come è possibile, Xxxx? Quello è uno che dice sempre che bisogna cambiare tutto, che ci vuole aria nuova, etc…”. “Proprio lui, e sai che ha detto a Xxxxxxxxx? Che lui oggi fa il compleanno, ma non lo festeggia. Spegnerà le candeline il 5 dicembre, celebrando la vittoria del No”. E giù imprecazioni della moglie, che in famiglia è quella che combatte davvero.
Così al nonno passa il pizzico di buonumore che gli aveva provocato il truce per il Sì e maledice il frescone che ha deciso di votare No. Sarà così fino al 4 dicembre, si dice: che stress! Poi se ne va a giocare con Tommaso e Andrea, che a votare non ci andranno per altri motivi. Tempo dieci minuti, e il buonumore torna.
Si o no, ma la civiltà innanzitutto – 13/11
Ieri mattina volevo andare ad ascoltare Matteo Renzi all’Assemblea nazionale sul Mezzogiorno, a Napoli. Non ci sono riuscito, perché la strada d’accesso alla Mostra d’Oltremare era stata chiusa dalla polizia, impegnata a contenere un sessantina di manifestanti che inalberavano cartelli per il No: No a Renzi, a De Luca, al referendum, alla svolta autoritaria. Erano i soliti professionisti dei cortei napoletani: esponenti dei centri sociali e finti disoccupati assistiti da decenni dalle istituzioni, in cerca di nuove mance pubbliche.
Manifestazioni contro Renzi o la Boschi (i due principali bersagli) si organizzano ormai da mesi dovunque, con la regia del circo itinerante degli antagonisti: gruppetti ultraminoritari spesso violenti, che provocano le forze dell’ordine, non di rado creano incidenti e disordini, al solo scopo di guadagnare visibilità e dimostrare l’esistenza di un’opposizione sociale al governo.
Niente di male, fino a quando le iniziative non generano danni a luoghi (come a Firenze, in occasione della Leopolda) o a persone (e a farne le spese sono sempre poliziotti e carabinieri). Niente di male fino a quando non si lede il diritto dei cittadini a partecipare in tutta serenità e libertà alla vita politica e al dibattito pubblico, come è invece avvenuto ieri.
E poi c’è un altro punto, per me cruciale. Il variegato fronte del No, che non comprende solo gli sfascisti Salvini e Grillo, ma costituzionalisti emeriti, politici sedicenti moderati, teorici cultori dell’ordine, non ha niente da dire nei confronti di questi episodi che si susseguono in tutta Italia? Nessuna dissociazione? Nessuna solidarietà con gli aggrediti? Solo perché sono esponenti del Sì o di un governo che non piace? Ecco, il distacco spesso compiaciuto del mondo politico e intellettuale, l’assuefazione e la mancanza di un punto di vista critico dei media verso questi fenomeni, mi sembrano dei segnali preoccupanti e tristi. Non saremo una democrazia matura fino a quando non saremo tutti d’accordo a mantenere il confronto politico nei limiti della civiltà, combattendo uniti gli intolleranti e i violenti.
The new Dalemone – 14/11
E così possiamo squarciare l’ultimo e decisivo velo di ipocrisia che avvolge questa campagna elettorale. Ci aiuta a farlo uno di cui tutto si può dire, tranne che sia un ipocrita. “Se vince il No, niente elezioni anticipate, bisognerà prima cambiare la legge elettorale… il presidente Mattarella nel giro di poche ore individuerà una personalità super partes per formare un nuovo governo”, ha detto ieri Massimo D’Alema, e c’è da credergli. Perché non c’è dubbio che, se vince il No, Renzi si dimette un minuto dopo, che non si andrà a votare, e che si tornerà ad un bel governo tecnico. Quello che aprirà trionfalmente le porte a Grillo nel 2018. Un programma fantastico, sottoscritto da D’Alema e Berlusconi, Monti e Bersani, Quagliariello e Brunetta, Meloni e Salvini, e il resto della compagnia.
D’Alema non è ipocrita, ma è ingenuo (chi lo conosce lo sa), e la lingua ogni tanto gli slitta. Ancora nessuno del fronte del No aveva esplicitato il bel programmino per il dopo 4 dicembre, almeno tra i noisti dal volto (presunto) umano – non parlo dei grillini o di Casa Pound. “Che c’entra il referendum con il governo? Renzi può rimanere anche se perde”, continuano a dire i sepolcri imbiancati, dal signore di Bettola agli emeriti, dagli editorialisti alle anime belle della “discussione nel merito” (che quando poi si discute nel merito se la squagliano come lepri e parlano della “personalizzazione”). Battono e ribattono su questa formuletta ipocrita perché sanno che gli italiani certo non correranno alle urne per ritrovarsi il giorno dopo nei marosi dell’ingovernabilità.
Ora però il momento della verità è arrivato. Quelli di prima vogliono semplicemente cacciare Renzi per fare da stampelle (non avendo, ovviamente, il coraggio di farsi avanti loro) ad un governo tecnico. L’obiettivo perfetto, se vogliamo far risalire lo spread, far ripiombare il paese nell’instabilità, far crollare la credibilità internazionale faticosamente ritrovata, consegnare – senza colpo ferire – il paese agli sfasciacarrozze.
Però la risposta al nuovo Dalemone spetta a voi, amici del Sì, non a Renzi. Il Presidente del Consiglio è stato accorto a eliminare dalla campagna il tema del dopo, forse proprio aspettando che qualcuno commettesse un’ingenuità e lo tirasse esplicitamente fuori. Questo è avvenuto. Non resta che comunicare agli italiani il simpatico disegno.
Kronos, Zeus e i naviganti senza guida – 16/11
Penso da anni che il principale problema politico italiano si chiama centrodestra: uno spazio sociale e culturale molto ampio che, dopo il declino di Berlusconi, non ha più rappresentanza e leadership operativa. Se avesse un leader credibile, il centrodestra sarebbe anche oggi competitivo, creerebbe non pochi (salutari) problemi a Renzi e aiuterebbe a svuotare la sacca elettorale del M5S, ridando al sistema politico italiano una seconda gamba spendibile come alternativa di governo. La dimostrazione plastica di questa tesi è che quando – come a Milano o in altre elezioni locali – il centrodestra individua candidati credibili, si mette in condizioni di vincere e i grillini diventano forza residuale (aiutando anche il centrosinistra a presentarsi meglio).
Il punto è che oggi una leadership nel centrodestra non c’è per il narcisismo fatuo e irresponsabile di Silvio Berlusconi, che non sopporta l’idea di farsi da parte e divora ogni suo possibile erede (lo ha fatto ieri con Stefano Parisi). Come Kronos, l’antica divinità mitologica che ingoiava i suoi figli, e fu detronizzato solo perché Zeus fu generato e allevato lontano da lui. Così il prossimo leader del centrodestra italiano dovrà nascere non da Berlusconi ma contro di lui: il solo modo per affrontare il problema credibilmente e con probabilità di riuscita. Lo sappiano tutti gli aspiranti al ruolo.
Peccato comunque per Parisi, che è una persona perbene, e ora potrebbe liberare la sua intelligenza a favore del Sì, dopo avere balbettato senza convinzione argomenti per il No, solo per compiacere Salvini e Meloni. Ma soprattutto peccato per gli elettori di centrodestra, naviganti senza meta, senza bussola né comandanti, cui il nostro lavoro deve rivolgersi massicciamente, cari amici del Sì.
Moltissimi elettori del centrodestra sono dei moderati, dei riformisti, dei modernizzatori. Non credo che vogliano finire nelle grinfie della compagnia di giro del No. Magari sono tentati dall’astensione. Oppure possono rifluire nella protesta nullista. Cerchiamo di evitarlo. Riserviamo a loro un impegno maggiore di quello che impieghiamo a convincere qualche testa dura de sinistra, facciamo in modo che l’assenza di una leadership nel loro campo non finisca per produrre danni all’intero paese.
Anche il 5 dicembre sorgerà il sole – 17/11
Lo so, pensiamo di avere tutte le ragioni del mondo a sostenere la riforma, in tantissimi ci stiamo mobilitando per questo referendum come non ci accadeva da anni, ci sembra impossibile che qualcuno possa pensare di votare No. Ma l’eccesso di passione e convinzione può farci commettere degli errori.
Per esempio a volte rischiamo di apparire arroganti, detentori di verità indiscutibili, messia del Paradiso post-referendum in terra. Mentre il Sì – come è ovvio che sia – non ci consegnerà certezze immediate, l’Italia non cambierà in automatico il 5 dicembre. La riforma, come ogni novità, andrà verificata, applicata, metabolizzata, perché creerà degli scossoni in un sistema oggi paralizzato in ogni sua parte, perché le cose nuove (il nuovo Senato, il nuovo titolo V) dovremo sperimentarle, perché altre riforme andranno aggiunte per via ordinaria. E perché, in fondo, sarà sempre il mondo che gira a decidere il destino dell’Italia. Ecco, queste sono cose da dire, se non vogliamo opporre allo schematismo irragionevole dei No delle parallele, aprioristiche dichiarazioni di fede.
Per esempio a volte (o forse spesso) tendiamo a vedere negli argomenti degli avversari solo la contrarietà preconcetta, il rifiuto ideologico, la difesa di piccoli interessi o privilegi, quando non la malafede. Mentre dobbiamo sapere che anche le più clamorose falsità che corrono dentro il No possono attecchire perché trovano un terreno fertile in errori passati, hanno dei fondamenti reali o verosimili, degli appigli su cui lavorare. E vanno quindi contrastate con argomenti pacati e solidi, non con alzate di spalle; armandoci di pazienza, non rispondendo colpo su colpo fino allo sfinimento. Per vincere bisogna mettersi nei panni degli altri, imparare a vedere il mondo con i loro occhi. Solo così potremo rompere il muro delle diffidenze.
Per esempio a volte (molte volte) sembriamo divorati dalla preoccupazione e dall’ansia, come se il 4 dicembre fosse il giorno dell’Apocalisse. Quand’anche lo pensassimo (e non vi nascondo che io a volte ci arrivo vicino) non c’è cosa più sbagliata che darlo a vedere. Il Sì deve presentarsi come una forza tranquilla, armata di ragionevoli convinzioni, pronta ad accettare ogni verdetto. Il che non vuol dire affatto sminuire la portata dell’appuntamento; significa solo non caricarlo oltremodo sulle spalle degli elettori. Gli italiani sono in grado di fare la scelta giusta senza sentirsi addosso il peso di giudizi preventivi, politici o addirittura morali. E ricordiamoci che, in ogni caso, anche il 5 dicembre sorgerà il sole.
Sondaggi, cavalli, daliette (e Renzi bis) – 18/11
Eccola, stamattina, l’ultima infornata di sondaggi. Su Repubblica, sul Corriere, sul Messaggero, sulla Stampa, sul Fatto. Tutti danno il No davanti, e le immagini impresse nei grafici a torta dei giornali resteranno scolpite nella memoria del giornalista collettivo e tra i cosiddetti opinion leaders. Gli articoli che leggerete, i commenti televisivi, le chiacchiere di salotto partiranno nei prossimi 15 giorni da questo presupposto: il No è in vantaggio. Ci porteremo dietro questo bias fino al 4 dicembre, malgrado sia dimostrata da tempo l’assoluta inaffidabilità dei sondaggi, dovuta a ragioni (numero di indecisi, campioni non rappresentativi, spirale del silenzio) che oggi Mauro Calise spiega bene sul Mattino.
Poi partiranno le corse dei cavalli, una farsa nella farsa. Come sapete, l’Italia vieta per legge la pubblicazione dei sondaggi dal quindicesimo giorno precedente il voto (un’anomalia pressoché assoluta che ci accomuna, nel panorama internazionale, a Grecia e Ucraina, mentre non esistono limiti in Germania, in Francia, nel Regno Unito e ovviamente negli Usa). Siccome siamo un paese di azzeccagarbugli poco liberali, ci siamo messi questa stupida camicia di forza. Ma siccome siamo anche un paese di ipocriti e di furbacchioni, dai prossimi giorni impazzeranno in rete e nelle redazioni i sondaggi clandestini mascherati da corse di cavalli o automobilistiche. E lì il marketing si darà ulteriormente da fare per dimostrare che il No è largamente in testa, invitando gli indecisi a sbrigarsi a salire sul carro del vincitore. Tutta roba già vista, contro la quale bisognerà indossare una corazza di serenità. Serenità che forse neppure basterà, di fronte alle sciocchezze che i commentatori metteranno in giro sul dopo-referendum. A partire dall’ipotesi, in caso di vittoria del No, di un governo Renzi-bis (espressione che, alle mie orecchie, suona da sola come un’orrenda parolaccia) che circola stamattina sui giornali. Vedrete quante altre ne sentiremo, di queste fesserie.
Insomma bisognerà blindarsi più che corazzarsi, amici del Sì. Oppure fare come mia moglie – combattente solitamente poco incline alla serendipity – che, nella telefonata mattutina, mi ha appena detto di aver visto sul terrazzo di casa delle dialette fiorite in questa strana coda di autunno, dimenticando così per un momento le ansie del referendum. Sforziamoci sempre di scrutare la bellezza della vita. E anche la nostra campagna diventerà d’incanto meno ansiosa, più gioiosa e libera.
La resistenza del no e il partito del si – 19/11
Ieri Renato Brunetta ha detto: “Coloro che sostengono il No non sono una coalizione di governo ma un ampio arco a difesa della Costituzione”. Aggiungendo qualche ora dopo: “E poi questo è un voto per mandare a casa Renzi”. Quindi, mettendo in ordine il suo pensiero: se per il Sì c’è Renzi e per il No l'”ampio arco”; se il referendum lo vince il No; se un attimo dopo – come richiesto dal voto popolare – Renzi va a casa; insomma se questa è la sequenza degli eventi, la sera del 4 dicembre i vincenti dovrebbero essere chiamati a fare un governo. Cosa che negano di voler fare e a buon motivo, perché – pure disponendo teoricamente in Parlamento di una maggioranza molto larga – nessuno immagina che Brunetta, Salvini, Bersani e Di Maio possano formare insieme il 64simo governo della Repubblica. Ed è la nota ragione per la quale potrebbe nascere un bell’esecutivo tecnico, raccogliticcio e raffazzonato.
Ma, al di là di questa solare contraddizione e del rischio ingovernabilità cui il fronte del No espone il paese, è proprio la sua natura a mettere in evidenza un avvilente profilo culturale più che politico. L'”ampio arco” è unito solo per la funzione resistenziale che svolge. Resiste, cioè si oppone “a qualcuno o a qualcosa”, recitano i dizionari. Si arrocca per difendere una Costituzione finora cambiata 16 volte. Contrasta Renzi, senza proporre agli italiani un’alternativa. Accusa il Sì di dividere il paese, ma i suoi capi non possono neppure parlarsi. Resiste (legittimamente, s’intende) ad un cambiamento, ma non può proporne un altro: l’unica sua piattaforma comune è conservare, conservare, conservare. In fondo non ha futuro, il fronte del No, per sua stessa ammissione. Ed è questo – se ci pensate un attimo – che rimanda al paese un messaggio triste, disperato, depressivo.
Di contro, la cupa campagna del No sta facendo emergere la crescente identità del Sì. Qualcosa che va molto al di là del voto. Il Sì non è solo unito nell’obiettivo referendario. Può piacere oppure no, ma la sua piattaforma parla di futuro. Il Sì sottopone al voto degli italiani un programma di riforme, di maggiore efficienza, di velocizzazione e di semplificazione, di apertura e modernizzazione del paese. Un insieme di aspirazioni, idee, obiettivi che stanno crescendo in queste settimane nel dibattito pubblico, e vanno molto oltre il referendum.
In questo senso l’esito del voto ha un’importanza relativa. Qualche sciocco dirà che sto mettendo le mani avanti. Non è così, perché sono convinto che gli argomenti ariosi, positivi, di puro buonsenso del Sì prevarranno, il 4 dicembre. Non dovesse accadere, il giorno dopo il voto, passata l’eccitazione del momento, il fronte vincente del No sarà morto e sepolto. Mentre il grande partito del Sì – nuovo, aperto, accogliente – avrà molta, moltissima strada davanti a sé. Magari per il cambiamento dovremo aspettare ancora un po’. Quando arriverà sarà anche più limpido e bello.
L’agitprop. Sì, nonostante Renzi? – 20/11
Ok, basta con la terapia psicologica. Da ora in poi l’unico modo per non sentirsi in ansia nelle ultime due settimane diventa stare in rete il giusto (pochissimo, il tempo di leggere qualche post carino, tipo i miei… scherzo) e poi fiondarsi tra la gente. Facendo campagna, ma come si deve. Per questo, signore e signori, da oggi parte il manuale dell’agitprop. Ovvero: regole e consigli su come fare campagna elettorale.
Primo. Impariamo innanzitutto ad affrontare le trappole. E partiamo dalla più pericolosa, con un esempio di scuola: incontriamo un tizio (al bar, sul treno, per strada), lo studiamo rapidamente (cercando di capire come può pensarla sulla base di una prima impressione, magari distorta ma necessaria per il primo approccio) e (sempre con garbo, misura, con un’incertezza studiata per potere cambiare “linea” in corso d’opera) gli chiediamo cosa pensa del referendum. Le risposte, come sappiamo, possono essere diversissime, ma ce n’è una in particolare che – veicolata, imposta dai media – viene ripetuta spesso come una cantilena: “Sì, cambiare va bene, ma questo è un referendum su Renzi. E a me Renzi non piace”.
A questo punto la conversazione può biforcarsi, andare in due direzioni diverse: sta a noi capire quale imboccare. Al nostro possiamo controbattere (a) “Sì, capisco, ma guardi che si vota sulla riforma della Costituzione, non su Renzi”, oppure (b) “Sì, capisco, ma perché ce l’ha tanto con Renzi?”. Risponderemo in un modo o nell’altro cercando di capire a volo quanto sia forte l’opinione critica su Renzi del nostro interlocutore. Ma sapendo anche che le due risposte non hanno lo stesso peso e valore.
Mi spiego. La risposta (a) è debole: a breve – sempre se siamo bravi – può permetterci di portare a casa il risultato (il voto per il Sì), ma sarà reversibile nei prossimi giorni: quando le polemiche politiche contro Renzi arriveranno al diapason o se il nostro interlocutore si incazzerà per una specifica misura del governo. Quindi ripiegheremo sulla risposta (a) se capiamo che non c’è margine per la risposta (b).
La risposta (b) invece è più forte. Difficile farla passare: richiede una buona preparazione su provvedimenti e cifre del governo (evitando di ammorbare l’interlocutore) e sulle condizioni in cui opera. E anche, magari, la capacità di gestire una complessa discussione sulle indubbie qualità di un leader quarantenne che, unico in Europa, riesce a contrastare populisti e sfasciacarrozze. Sappiate però che, se sfondiamo il muro anti-Renzi costruito dai media, il grosso è fatto. Quel voto avrà una sua consistenza: difficilmente rifluirà verso il No o l’astensione.
In sostanza: la risposta (a) lasciamola a intellettualoni e vari sopracciò. Tipo Gad Lerner, che oggi dice “Voto Sì, nonostante Renzi”. Con la risposta (b) portiamo a casa un risultato soddisfacente e solido, che varrà anche dopo il 4 dicembre. Alla prossima puntata.
Veniamo a un punto che mi fa impazzire. Non ricordo chi abbia detto per primo “la riforma è pasticciata” (forse uno che ho conosciuto bene e frequentato, ma non vorrei sbagliare…). Fatto sta che se cliccate l’espressione su Google – da Quagliariello a Pasquino, da Civati a Carfagna a Fedriga, Panzeri, Parisi (Stefano), Gotor, Taverna, Ingroia, Speranza, Craxi (Stefania), De Mita, Berlusconi, Brunetta, Fitto, Salvini, Imposimato, Calderoli, Meloni, Landini, Schifani, Pace, De Siervo e l’altro ieri Camilleri – tutti, ma proprio tutti usano questa formula (e non so quanti abbiano letto la riforma). Quindi, da comunicatore, rendo onore a chi l’ha inventata. Da sostenitore del Sì, credo che dobbiamo fermamente contestarla. Naturalmente con intelligenza.
Ci sono due ovvietà che non varrebbe neppure la pena ricordare. Per definizione, una riforma costituzionale (per i passaggi parlamentari che richiede, i necessari accordi tra le forze in campo) è un compromesso tra punti di vista diversi. Così è stato anche nel nostro caso: come è noto, il testo Boschi è stato più volte votato anche da Berlusconi, Monti e Bersani, che ora dicono “è divisivo”. In secondo luogo una riforma, per valutarla, va attuata: parlarne astrattamente lascia il tempo che trova. Vi sono norme da sperimentare, istituzioni da creare ex-novo, l’intera riforma si deve incastonare nell’impianto complessivo del sistema.
Quindi si può certamente dire che la riforma è “un compromesso” e che “va messa alla prova“; non sono concessioni al nostro mitologico interlocutore critico, rappresentano la verità dei fatti. Viceversa, “la riforma è pasticciata” è un giudizio preventivo e preconcetto. E’ un bias, “una distorsione della valutazione causata da un pregiudizio”, da smontare con calma, pezzo dopo pezzo. Innanzitutto studiando il DDL Boschi (mi dispiace, amici, una campagna elettorale non è una passeggiata di salute) e difendendolo nel suo insieme.
Qualche settimana fa, in un dibattito a Milano, mi colpì un’espressione di Lisa Noja, bravissima e scrupolosa avvocata, che descrisse la riforma come “rotonda”, (altro che pasticciata). Cioè coerente al suo interno e con i 4 obiettivi generali che si dà. Che sono:
- Restituire un senso al bicameralismo, coerente con la funzione storica che ha in tutti gli altri paesi occidentali;
- Ridare al Parlamento la pienezza del suo ruolo di legislatore, accrescendo l’accountability degli eletti e del Governo;
- Valorizzare i territori stabilendone competenze precise, omogenee alle loro funzioni.
- Dare stabilità al Governo, accrescendo gli strumenti partecipativi per combattere l’antipolitica e l’estraneità dei cittadini ai processi decisionali.
Una sintesi che trovai e trovo efficacissima. Al punto che domani ruberò a Lisa l’intero suo pensiero sulla riforma e ve lo posterò. Dovrete impararlo a memoria per rispondere a tutti i Mastri Pasticcieri che si presenteranno sulla vostra strada.
Adesso viene il difficile, prendete carta e penna per gli appunti (a volte meglio i vecchi strumenti per memorizzare…). Oggi entriamo nel merito dei quattro obiettivi generali della riforma, così da rispondere anche a domande e obiezioni pervenute. (Come vi ho già detto, è la mia guru personale Lisa Noja a parlare: io sono responsabile solo delle eventuali inesattezze).
Restituire un senso al bicameralismo, coerente con la funzione storica che ha in tutti i paesi occidentali
- Storicamente il bicameralismo è servito a soddisfare due esigenze: rappresentare le diverse classi sociali (come nel bicameralismo inglese); oppure rappresentare e tutelare gli Stati membri di uno Stato federale (o con territori molto caratterizzati), essendo l’altra Camera espressione dell’intero corpo elettorale (come nel bicameralismo americano e tedesco).L’Italia è un paese con territori forti. Quindi da noi il bicameralismo ha senso se serve a dare rappresentanza agli enti territoriali. Altrimenti è un doppione. Tutte le scelte della riforma sono coerenti con questa visione;
- i senatori sono scelti tra consiglieri e sindaci. Altrimenti si perde il legame con la rappresentanza territoriale e non ha senso avere due Camere. Per la prima volta, finalmente, vi sarà un luogo trasparente in cui chi è chiamato ad applicare le norme sul territorio potrà esprimere un parere nel corso del processo legislativo, quindi a monte e non a valle. Oggi non è possibile: i singoli enti territoriali possono tuttalpiù scrivere al singolo parlamentare, ma non esiste un luogo in cui si possa formare una posizione comune e scambiarsi buone pratiche, trasformandole in proposte normative. La Conferenza Stato-Regioni è un luogo di confronto degli esecutivi, non dei legislatori. Da domani, i cittadini potranno conoscere le istanze portate dagli enti territoriali alla Camera e, se questa non ne terrà conto, ognuno ne risponderà;
- è coerente con la complessità del quadro politico dei singoli territori il fatto che siedano in Senato rappresentanti degli organi elettivi delle regioni e non, come nel Bundesrat, dei governi. Nel Bundesrat le opposizioni non hanno alcuna voce. Secondo il sistema tedesco, per la Lombardia parlerebbe solo Maroni, per la Toscana solo Rossi. È immaginabile in un paese come il nostro?
- proprio in ragione della differente rappresentatività, i senatori italiani non saranno vincolati a un mandato, diversamente dai rappresentanti dei governi dei Länder. Non avrebbe senso garantire la rappresentanza delle opposizioni regionali e poi vincolarle al voto delle rispettive maggioranze;
- è coerente con la funzione di rappresentanza del territorio il fatto che il Senato sia un organo permanente con membri rinnovati a rotazione, ogni volta che in una regione si tengono elezioni regionali.
Ridare al Parlamento la pienezza del suo ruolo di legislatore, accrescendo l’accountability degli eletti e del Governo
- L’attuale sistema è scientemente costruito per rallentare il processo legislativo (Mortati parlava di funzione “ritardatrice” del bicameralismo paritario). Le uniche leggi oggi approvate rapidamente sono quelle di iniziativa governativa che, per la maggior parte, riguardano la politica economica. Se si vuole insabbiare una legge scomoda o su temi sensibili (omofobia, testamento biologico), basta lasciare che il meccanismo bicamerale faccia il suo corso; nessuno ne risponderà, perché “il sistema funziona così”. Distinguere i compiti delle due Camere serve a superare questa impostazione, che ha mortificato il Parlamento e deresponsabilizzato i parlamentari. Con la riforma si saprà cosa fanno i deputati e cosa i senatori. In modo da potere effettivamente tirare le somme a fine mandato.
Valorizzare i territori stabilendone competenze precise, omogenee alle loro funzioni
- Con la riforma del Titolo V, coerentemente con il riconoscimento del ruolo dei territori, si mette esclusivamente in capo allo Stato la funzione di direzione e coordinamento delle politiche strategiche. Tutti i paesi davvero federali hanno Stati centrali molto forti (USA, Germania), perché è proprio dalla definizione di competenze robuste dello Stato, distinte da quelle organizzative e di gestione dei territori, che questi ultimi vengono valorizzati. Non è mai vero il contrario.
Dare stabilità al Governo, e contemporaneamente accrescere gli strumenti partecipativi per combattere l’antipolitica e il senso di estraneità dei cittadini ai processi decisionali
- Con un Parlamento restituito al suo ruolo e alla sua dignità, anche il Governo acquisterà forza e stabilità, senza che venga intaccata la Repubblica parlamentare. Il superamento del bicameralismo paritario metterà rimedio alla bulimia di voti di fiducia e decreti legge che indebolisce e toglie credibilità all’azione del Governo. D’altronde basta alzare lo sguardo per accorgersi che, proprio dove i Governi sono più stabili, i Parlamenti sono più autorevoli: efficacia del processo legislativo ed efficacia del processo amministrativo si tengono insieme;
- al contempo, la riforma potenzia gli spazi di partecipazione dei cittadini: rimane la soglia delle 500mila firme per presentare un quesito referendario e il quorum della partecipazione della maggioranza degli aventi diritto per la validità della consultazione, ma con 800 mila firme si abbassa il quorum, che viene calcolato sul numero dei votanti all’ultima tornata delle politiche; si introducono per la prima volta nella storia repubblicana referendum popolari propositivi e d’indirizzo; si garantisce che le leggi di iniziativa popolare saranno discusse e votate: i cittadini, con 150mila firme, potranno costringere il legislatore a prendere posizione.
Ecco spiegata la “rotondità” del DDL Boschi, la sua coerenza interna, la sua rispondenza a obiettivi sistemici generali. Ora studiate come si deve questi concetti-chiave. E parlatene nella maniera giusta a chiunque. Senza fare i professoroni, senza strologare eccessivamente, senza impigliarvi in discussioni oziose e da azzeccagarbugli. Domani, per un ultimo approfondimento, vi squaderno i numeri che dimostrano la necessità della riforma. (Grazie, Lisa).
Ci sono numeri di cui nessuno parla, in questa campagna. Non sono quelli dei risparmi monetari della riforma (pure importanti) o dei parlamentari che diminuiscono. Ma sono in realtà molto più significativi. Sono i numeri (statistiche, percentuali) che condizionano pesantemente il funzionamento del sistema. Dovessi scegliere dati concreti su cui fare campagna, userei questi che sto per elencarvi, amici del Sì.
Come la mia guru Lisa ed io vi abbiamo detto nei giorni scorsi, l’intera riforma ruota intorno ad un obiettivo: restituire al Parlamento il ruolo che gli compete e dare più forza e stabilità al Governo. Bene. I dati ci dicono che nell’attuale legislatura, dall’inizio del 2013 al settembre 2016, su 6.729 proposte di legge depositate, solo 243 hanno completato l’iter, cioè il 3,61% del totale. Se consideriamo le proposte parlamentari, i ddl diventati legge sono 46 su 6.103: meno dell’1%. Sorte parzialmente diversa per le proposte del governo: su 609 ddl, 195 sono diventati legge, il 32,02%.
La conclusione è evidente. Il Parlamento non funziona affatto per il ruolo legislativo che dovrebbe avere, perché le proposte parlamentari si perdono nelle interminabili navette tra Camera e Senato. Il Governo, per svolgere la sua funzione esecutiva, e fare passare in tempi accettabili i provvedimenti che ritiene necessari, è costretto – ormai da anni e anni – a ricorrere ai famigerati decreti-legge, spogliando il Parlamento delle sue funzioni primarie. E questo spiega anche i tempi diversi della produzione legislativa. Per approvare le 46 norme di iniziativa parlamentare ci sono voluti, in media, 504 giorni. Invece le 195 leggi di emanazione governativa, hanno richiesto, in media, 172 giorni.
Ecco chiarita, con pochi e solidi numeri, la più clamorosa disfunzionalità del nostro sistema. Che è poi – bisogna saperlo – il motivo profondo (e giustificato) per cui la gente pensa che i politici stiano in Parlamento a perdere tempo: uno dei più tipici argomenti dell’antipolitica. A noi, amici del Sì, piace tutta la riforma, ma il superamento di un sistema fatto di navette, decretazioni e ratifiche, in favore di una democrazia parlamentare funzionante, non dovrebbe dispiacere neppure al più incallito sostenitore del No.
I confini dell’equilibrismo terzista – 22/11
Definire i leader del No un'”accozzaglia” equivale a dire “quelli del Sì sono dei serial killer, uccidono il futuro dei nostri figli”. Il “ciaone” di qualche mese fa è infame quanto la vignetta sulle cosce della Boschi. Il Sì e il No si equivalgono, perché “nessuno discute del merito”, e se qualcuno cerca di farlo gli si dice “ci dispiace, non possiamo perché hai personalizzato”.
Di notte (e di giorno) tutti i gatti sono bigi per una certa Italia eternamente cerchiobottista, fatta di brillanti filosofi possibilmente agés e con la barba, di opinionisti celebri a se stessi, di notisti politici che lavorano con il contapassi del Transatlantico più che con il cervello, di editorialisti del Corriere che non si chiamano Panebianco. Basta che si manifesti l’occasione di una scelta, di una scelta qualunque, che subito la gran parte dei nostri maitres à penser alle vongole riesce a collocarsi con raffinata naturalezza nella posizione più comoda e vile: la Terza Posizione, una collinetta con vista dalla quale i contendenti possono essere cecchinati con non chalance e senza sporcarsi le unghie. Posizionamento da artisti per future collocazioni nelle loro invendute gazzette.
Posizionamento che cresce e si diffonde a pochi giorni dal voto. Ora è il momento giusto per prendere il coraggio a quattro mani, e strapparsi le vesti per una campagna “rissosa e senza argomenti”, per uno “scontro pregiudiziale tra schieramenti”, e soprattutto contro la “divisione del paese”, espressione da pronunciare – mi raccomando – con dolente lacrimuccia annessa. In attesa degli editoriali del 4 dicembre mattina, che saranno stampati in fotocopia: “Abbiamo assistito alla campagna più brutta, violenta e senza contenuti della nostra storia repubblicana”.
Ma ci sarà mai una linea di confine di questo penoso immoralismo terzista? Per esempio, le parole di Alessandro Pace, presidente dei comitati del No, costituzionalista e forse pure emerito (“Faremo ricorso se il Sì vince con il voto degli italiani all’estero”) sono da considerare della stessa gravità di una delle quotidiane battute di Renzi? Oppure si può sperare che domani qualche anima bella dica che questo signore ha oltrepassato – lui, non altri – il limite della decenza?
Scendere dalla nuvola – 24/11
E vennero i giorni della fiducia. Nei sondaggi che corrono a mezza bocca nelle redazioni, il Sì recupera consensi. Più in generale, ognuno di noi verifica nella quotidianità, empiricamente, che il No ha fatto più o meno il pieno, e il Sì può conquistare una buona fetta degli indecisi. Siamo contenti. Purché non arrivino i giorni dell’euforia. Non solo per il banale motivo che la campagna è ancora tutta da fare e da vincere, che negli ultimi dieci giorni possono accadere dieci o cento cose nuove e modificare tendenze, umori e pulsioni dell’opinione pubblica. Ma perché dei sondaggi dobbiamo saggiamente continuare a non fidarci.
Cerco per l’ennesima volta di spiegare la faccenda. Il problema non è che i sondaggi sono fatti male. E’ che intercettano in media 1 italiano su 10, e riflettono, più o meno scientificamente, l’opinione di coloro che rispondono all’indagine. Che sono quelli che guardano i talk in Tv e leggono i giornali (cioè una fetta minima, marginale della popolazione), ed esprimono un’opinione sulla base dell’opinione che si forma tra i loro simili che guardano talk e leggono giornali. I quali talk e giornali costruiscono un’opinione cercando di intercettare quello che ritengono che pensino coloro che guardano talk e leggono giornali. Che sono gli stessi che trovano conferma di quello che pensano leggendo giornali e guardando talk che riferiscono la loro opinione presunta. E che, alla fine di questo circuito infernale – descritto naturalmente con un certo schematismo – rispondono alle indagini. (Nel circuito c’è anche la rete. O meglio, ci sono le minoranze clusterizzate che si danno battaglia in rete. Ma ne parliamo un’altra volta).
Vi siete persi in questo giro pazzo? Vi capisco, ma accontentatevi della spiegazione. Oppure, per semplificare, pensate ad un’immagine più chiara. Tipo una nuvola. Viviamo tutti (giornalisti e politici, opinion leader e blogger, leoni da tastiera, da telecomando e da bar) avvolti in un nuvolone che ci impedisce di vedere il mondo reale. Forse ce lo fa giusto intravedere. Ma è il mondo reale che il 4 dicembre uscirà di casa e deciderà, magari pochi minuti prima, di votare in un modo o nell’altro. Un mondo che in Tv guarda giochi a premi e talent. Che in rete gioca a burraco. Che con i giornali ci incarta il pesce (almeno una volta a questo servivano, dalle mie parti). Che ai sondaggi non risponde. Mettiamo i piedi saldamente a terra e parliamo con questo mondo vero (che, sia detto tra parentesi, è mille volte meglio di quello che incontriamo sulla nuvola nella quale ci parcheggiamo).
La rendita e il profitto – 25/11
Tanti anni fa, quando eravamo assai giovani, passavamo giornate (e nottate) a discutere di rendita e profitto. Il profitto non ci piaceva, però persino noi (dico persino perché eravamo abbastanza irragionevoli, onestamente) capivamo che era necessario: il terribile capitalista rimetteva in circolo il plusvalore che fotteva al lavoro operaio investendo, generando crescita e ricchezza. La rendita, invece, ci faceva schifo. Era “parassitaria” per definizione. Ce la figuravamo nelle vesti del vecchio proprietario agricolo che sfruttava i suoi terreni senza migliorarli, o dello speculatore urbano che passava a fine mese a riscuotere gli affitti dei suoi appartamenti.
Passatemi questa immagine: anche questo referendum è un impietoso confronto tra rendita e profitto. Quando leggo che per il Sì sono Marchionne, Rosso, Del Vecchio, Mediaset, la Confindustria e – generalmente – gli imprenditori, i manager, i professionisti, (coloro che producono e generano ricchezza, per dirla con formula antica), non penso (perché non è vero) che questi signori sono i “poteri forti”, ma che sono quelli che fanno girare l’economia del paese, se ne fregano di Renzi, e vogliono solo che le cose funzionino un po’ meglio. Vogliono fare profitto, vivaddio, e contribuire a fare crescere il paese.
Mentre i veri poteri forti italiani sono altri. Sono quelli che impediscono l’innovazione, mettono veti e ostacoli alle riforme, creano insormontabili barriere burocratiche allo sviluppo. Sono i dirigenti statali che non vogliono che nella PA prevalga il merito, i baroni universitari che non vogliono confrontarsi con i ricercatori stranieri, i magistrati che vogliono tenere sotto ricatto permanente il sistema. Sono le mille corporazioni di questo paese che si battono per preservare i tanti piccoli, diffusissimi privilegi di cui godono, e mantengono da decenni l’Italia in una condizione di paralisi, di blocco. Questa è la rendita parassitaria del nostro tempo.
Da che parte sta la politica è superfluo ricordarlo. Oggi c’è un politico che investe sul potere di cui dispone per renderlo profittevole. Rischiando di suo, Renzi propone un cambiamento, un ammodernamento del sistema che può creare le condizioni per ripartire. Dall’altra parte ci sono tutti (tutti) gli altri politici che difendono i loro orticelli, le loro rendite di posizione, la loro possibilità di mettere veti grazie ad un qualche zero virgola. Come e forse più che negli altri campi, anche in politica lo scontro del 4 dicembre è tra rendita e profitto. Piuttosto semplice (ed è pazzesco che ci sia chi non lo capisce. O fa finta di non capire).
La sinistra e la casta – 26/11
La Casta della rendita e dei burocrati ha detto la sua ieri pomeriggio, intorno alle 18. Con il suo solito, straordinario tempismo, la Corte Costituzionale è intervenuta nella campagna referendaria bocciando parti qualificanti della riforma Madia con un tipico cavillo da azzeccarbugli (ci vuole l’intesa con le Regioni, non basta il parere), utilizzando i principi costituzionali dettati dall’attuale sciagurato titolo V, quello che possiamo finalmente cambiare con il referendum. Una sentenza emblematica, che dimostra quanto sono potenti le resistenze conservatrici al cambiamento, e grida una fortissima ragione in più per il Sì al referendum. Niente che già non sapessimo, per quello che mi riguarda. Ma ieri sera il mio Sì si è moltiplicato per mille, e spero quello di tanti.
Poi stamattina ho incontrato per strada un vecchio compagno della sezione “1° maggio” che non vedevo forse da trenta anni, e subito si è parlato di referendum. “Io voto No, Velardi. Non mi fido…”. Gli ho chiesto le ragioni della sfiducia (“da tanti anni solo chiacchiere, delusioni, divisioni…”). Abbiamo conversato con serietà e affetto, gli ho detto delle mie ragioni, ho insistito sui temi della lotta alla burocrazia, ai poteri chiusi e arroccati, non (solo) perché fossero di giornata, ma perché a me sembrano davvero cruciali nel voto del 4 dicembre. Infine ci siamo abbracciati, e ho visto nel suo sguardo smarrimento, incertezza. Forse in un quarto d’ora sono riuscito a convincerlo.
Però tornando a casa, e ora che scrivo, mi è salito un velo di tristezza. Ma che cosa è successo a quella che una volta era la mia grande famiglia, la sinistra italiana? Come abbiamo fatto a disperdere quel patrimonio umano, di cultura politica, quell’impasto di ideali importanti e concreto riformismo che ha segnato un pezzo significativo della storia di tanti di noi? E quanti errori abbiamo fatto tutti (magari anche Renzi, l’ultimo arrivato) se quella che a me oggi sembra una posizione ovvia, scontata (il Sì alla riforma), non appare tale a quel compagno che mi insegnò a mettere la giusta dose di Sichozell nell’acqua che serviva ad attaccare i manifesti, e certo non è un grand commis di Stato, non è amico di nessuna casta, non è grillino né berlusconiano, e – in fondo – vuole, proprio come me, solo una società che funzioni meglio?
Renzi – 27/11
Da mesi discutiamo della personalizzazione di questo referendum. E, anche in questi giorni, a me capita di incontrare persone ammodo che andranno a votare giudicando il merito del quesito, rifiutando l’opzione pro o contro Renzi. Però non dobbiamo essere ipocriti, abbiamo il dovere di dirci la verità. Non era immaginabile che – nell’attuale fase di personalizzazione della politica e delle leadership a livello globale; nell’Italia faziosa e ideologica, patria dell’eterno scontro tra guelfi e ghibellini; in presenza di un leader estroverso e anche controverso di suo come Renzi – l’appuntamento del 4 dicembre potesse essere affrontato con la stessa nonchalance di un referendum sugli orologi a cucù nel Canton Ticino.
Non era immaginabile, e infatti non è avvenuto. Non perché Renzi ha “personalizzato”, ma perché Renzi è l’alfa e l’omega della politica italiana. I dati – del tutto oggettivi, non è questione di simpatia o antipatia – ci dicono che nel giro di pochissimi anni questo giovane politico di periferia si è impadronito del suo partito, portandolo a vette di consenso mai toccate; ha conquistato il governo del paese, che gestisce da quasi tre anni con indiscutibile energia e portando avanti un programma di riforme (che possono piacere o no, ma non sono la gestione stanca cui eravamo abituati); ha ridato voce all’Italia in Europa, sia pure nella crisi drammatica in cui versa la governance continentale.
E’ logico, quindi, che il 4 dicembre verrà giudicato lui, insieme alla riforma della Costituzione che ha messo al centro del suo programma. Ed è sbagliato (e perdente) che i suoi sostenitori, di fronte agli attacchi avversari, si ritraggano come impauriti dalla discussione su Renzi, sul governo, sulle cose fatte e quelle da fare. Amici del Sì, non vi nascondete dietro il Cnel e il titolo V, non subite le critiche su jobs act e buona scuola. Affrontate a viso aperto la battaglia su tutto: domenica prossima il bilancio, sappiatelo, sarà unico.
D’altro canto, nei circoli piuttosto affollati di quelli che non hanno niente da fare, la domanda del giorno è solo questa: “Che cosa farà Renzi?”. Se vince, se stravince, se perde, se straperde. Politologi e commentatori dello zero virgola sostengono che ad ogni percentuale corrisponderà una decisione. Salirà sul Colle per dimettersi. O per autonominarsi Imperatore. Magari per essere reincaricato. Oppure per una tranquilla chiacchierata con Mattarella, prima di tornare al lavoro il lunedì mattina. Di una cosa si può essere più che certi. Il 5 mattina il vostro leader resterà il protagonista della politica italiana.
Assumersi le responsabilità – 28/11
Ho avuto un piccolo scambio di idee in rete con una mia amica contraria alla riforma, ora però preoccupata che il No faccia da traino a Grillo, e quindi tentata di votare Sì. Le ho detto che – a mio avviso – non è bello votare turandosi il naso solo perché i barbari sono alle porte. Almeno io non l’ho mai fatto (altro conto è scegliere, responsabilmente e con razionalità, il meno peggio, individuando di volta in volta l’opzione più accettabile). Quindi se uno pensa – avendola letta – che la riforma fa schifo, fa bene a non votarla. Avendola letta.
Non si è obbligati a studiarla, la riforma. Le persone normali che incontro (commercianti o tassisti, parenti o amici che fanno mestieri normali: insomma non l’orribile bolla di giornalisti, professori universitari, addetti ai lavori e web addicted) non si pongono certo il problema di compulsare il testo Boschi prima di domenica. Andranno a votare Sì o No per i motivi più vari (perché si fidano o perché no, per Renzi o per cacciarlo, per il governo o contro, perché guardano al mondo o perché lo temono, etc…) e ne hanno, per fortuna, ogni diritto: è la bellezza della democrazia, che ci consente di esprimere un’opinione libera e non sindacata da nessuno. Ai miei occhi la loro è un’opinione sacra, certo più di quella espressa da una qualunque accademica testa di cazzo, che pretende di spiegarti come funzionerà o non funzionerà la riforma senza saperne niente allo stessissimo modo. E mettendo il suo voto su un piedistallo, come se pesasse di più.
Alla mia amica ho detto “se non ti piace la riforma vota No”, perché non è più il momento degli alibi. Personalmente non sono disposto ad avallare il giochino comodo e opportunistico, in voga a sinistra in questi giorni. “La riforma fa schifo, voi renziani siete degli stronzi, l’Italia è alla deriva, una volta sì che c’erano i politici e gli intellettuali. Siamo costretti a votare sì per motivi di forza maggiore”. Fanculo, anime belle. Le vostre scelte, come quelle di tutti, comporteranno delle conseguenze. Provate a tenere la schiena dritta e, per una volta nella vita, assumetevi una responsabilità. No è No. Sì è Sì.
Generazioni al voto – 29/11
“Gli anziani votano Sì perché non capiscono”, sentenziò qualche settimana fa un quasi settantenne. Ieri, in una bella e affollata assemblea a Foggia, gli over 60 erano in maggioranza. Ma parevano avere le idee molto chiare. “Vogliamo consegnare ai giovani una possibilità di futuro”, mi ha detto uno di loro, aggiungendo qualche irriferibile giudizio sul suo coetaneo inciprignito.
Perché i baby boomers italiani (approssimativamente, sul piano sociologico, i nati tra il dopoguerra e la fine degli anni ’50) sono in maggioranza per il Sì, almeno stando a tutte le indagini? Perché la loro è stata una vita di conquiste, di miglioramenti, di crescita. E ora pensano, con generosità, di poter trasferire ai più giovani una chance. Non hanno da chiedere ancora ma sentono di dover dare. Hanno studiato, spesso a differenza dei loro genitori; hanno conquistato un lavoro, una buona assistenza sanitaria e una degna pensione; hanno maturato una lunga aspettativa di vita (la più lunga al mondo dopo il Giappone). Oggi si godono la cosiddetta terza età: leggono, viaggiano, curano il proprio benessere fisico e mentale, oltre a fare spesso, e con gioia, i nonni (il più bel mestiere del mondo).
Ma gli over 60 guardano con preoccupazione al domani. Perché sono consapevoli che alle generazioni che hanno allevato non è garantito lo stesso, lineare futuro. Hanno visto i loro figli, oggi quarantenni, soffrire per la ricerca di un lavoro, spesso non trovato. Sanno bene che l’orizzonte pensionistico e del welfare è incerto e a rischio (anche per il debito che proprio noi stiamo lasciando ai più giovani). Quindi, altro che “non capire”. Un anziano sa meglio di chiunque altro che bisogna cambiare, per fare ripartire – nelle condizioni nuove – la nostra società del benessere. Mentre, sempre stando alle indagini, proprio coloro che hanno pagato di più la crisi (le generazioni successive, le fasce di età che vanno dai 35 ai 45-50 anni), sembrano non comprendere questa esigenza di cambiamento, e sono più tentati dai richiami populisti, dal ribellismo sterile del No, a volte finanche animati da rancore e invidia sociale nei confronti dei quarantenni che un rinnovamento nel paese lo stanno avviando.
Sono alcuni dei veri paradossi che il voto di domenica scioglierà, io spero positivamente, con la vittoria del Sì. Anche per evitare che si avveri l’ultima profezia dell’anziano inciprignito che, annunciando la vittoria del No, ieri ha detto: “Qualcuno sta già prendendo appuntamenti con me per il dopo referendum”. Dimenticandosi di aggiungere: “Ai giardinetti, diciamo”.
Sorpresa Italia – 30/11
Istantanee del paese reale alla vigilia del voto. Fino a pochi minuti fa, abbiamo discusso con un cliente di cose da fare. Tra un approfondimento e l’altro, ha fatto capolino il referendum. “Non se ne può più: qualunque tema affronti, tutti dicono ‘ne parliamo dopo’. E’ come se il paese intero fosse fermo, in attesa di domenica prossima”, ha sbottato uno dei manager. Sulla via del ritorno, Mariarosa e Mario mi raccontano però di aver incontrato e interrogato sul tema, ieri in treno, un giovane e famoso rapper. “Mi chiedete che cosa voterò? Ma perché, si vota? E su che cosa?”. A mia volta, riferisco del tassista di ieri sera, che aveva sul tema molte opinioni, ma del tutto indecifrabili. Arrivati in ufficio, Antonio mi dice di aver sondato ieri sera, con tanto di scheda, un gruppo di suoi commensali. Con esiti imprevisti. Nel frattempo, mia moglie mi manda sms con notizie contraddittorie sul voto di amici e parenti.
Facciamocene una ragione, amici. Gli italiani stanno cominciando ora a farsi un’idea del referendum – ognuno con i suoi tempi e le sue modalità – e nessuno di noi è in grado di dire cosa sta maturando nel grande calderone. Interpretiamo fondi di caffé, tiriamo fuori presuntuosamente un’opinione pubblica dai nostri sondaggini privati. Ma in sostanza brancoliamo nel buio. E badate che qui, nei nostri consessi ossessionati, finiamo comunque per scrutare mondi che si espongono: alle maggioranze silenziose, alle casalinghe di Voghera neppure ci arriviamo. Parliamo di persone che – più o meno informate – dichiarano, aprono la bocca, esprimono preferenze. Mentre non abbiamo la più pallida idea di quello che sta succedendo sottotraccia, tra i connazionali che non sono intervistati dagli amici, che hanno una scarsa vita di relazione, che semplicemente se ne fottono.
In questo senso, una cosa dovremmo avere il coraggio di dire tutti noi: operatori dell’informazione, addetti ai lavori, maniaci del web, militanti, tifosi. Viviamo in una realtà che non riusciamo a decifrare nel suo insieme. L’Italia che va al referendum si presenta ai nostri occhi come una nebulosa sospesa. Comunque vada, domenica prossima tutti noi avremo una sorpresa. E il primo che verrà a dirmi “lo sapevo che finiva così” riceverà i sensi della mia più cordiale e ironica disistima.
La posta in gioco si chiama governo Renzi – 1/12
Twitto: “Se domenica gli italiani cacciano Matteo Renzi, sono degli sconsiderati”. Ricevo molti consensi e dissensi, e una risposta sintomatica: “Non ho capito: dovrei votare per una riforma della Costituzione che fa schifo, se no Renzi buca il pallone?”, scrive Cristian Palazzini, che tocca così il punto cruciale. Che – ovviamente – non è la “riforma che fa schifo” (quasi sempre chi ne dice peste e corna della riforma non ha letto un rigo, tant’è che svicola sempre quando si va al merito), ma il rapporto tra il voto di domenica e le sorti del governo. Un legame che c’è, e solo gli imbroglioni o gli sprovveduti possono negare.
Come ha detto benissimo Angelo Panebianco qualche giorno fa “che il capo del governo si giochi la testa sulla riforma più importante del suo governo mi pare ovvio. Solo nel paese degli irresponsabili il governo lancia una riforma importante e se viene bocciata si fa finta di niente. E se non avesse “personalizzato” Renzi, l’avrebbero fatto i suoi avversari, che infatti lo dicono fin dall’inizio: il No significa ‘mandiamo a casa il premier'”.
Molti imbroglioni (D’Alema, Monti e tutte le finte verginelle del vecchio establishment politico) per lungo tempo hanno fatto orecchie da mercante: “Renzi può restare anche se vince il No”, dicevano. Ad un certo punto il più ingenuo di loro, Bersani, si è tradito: “Se perde, Renzi può restare, magari un po’ acciaccatino…”. Sarebbe per loro lo scenario ideale: un governo infiacchito dal voto; Renzi come un qualunque Mariano Rumor del nostro tempo. In attesa della sconfitta definitiva, per mano dei Cinquestelle.
Tanti sprovveduti a questa anestetizzazione del voto hanno creduto, parecchi in buonafede. Bisogna spiegare loro come stanno le cose. Non può dirlo esplicitamente Renzi, almeno non più di quanto lascia intendere in queste ore. Dovete dirlo voi a chiunque, amici del Sì, con pacatezza e decisione. Ci dispiace, ma per gli sprovveduti non c’è più spazio. Domenica ognuno si assume le sue responsabilità. Con il No il governo va a casa. Le conseguenze le pagheremo tutti.
La bellezza del riformismo – 2/12
Quattro anni fa non avrei mai immaginato che il mio fratellone Umberto (scuola Pci, ruvido e solido riformista) potesse entusiasmarsi come un ragazzino ascoltando ieri Matteo Renzi alla Mostra d’Oltremare. Quando il fiorentino venne al mondo, con le primarie 2012, ci scazzammo come i ragazzini figicciotti che fummo, in maniera sanguigna: per stare con lui, a me – anarchico e irregolare dentro – bastava la fiamma della novità che incarnava; il fratellone chiedeva ragguagli, voleva precisione, la sua cultura di origine prevedeva passaggi rotondi, non salti.
Poi Umberto ha cominciato una lenta, progressiva e puntigliosa marcia di avvicinamento. Hanno pesato i clamorosi errori dei suoi vecchi – anche molto cari – amici, che si sono messi dalla parte sbagliata in ogni possibile circostanza. Ma moltissimo ha pesato il concreto riformismo di Renzi, incardinato coerentemente in una cultura politica che la storia non ha condannato (a differenza di quanto era capitato a noi, poveri comunisti italiani). E la sua capacità di “fare politica” (come diciamo noi di vecchia scuola), ben celata dietro l’esplosivo vitalismo comunicativo.
Ora siamo ad un passaggio emblematico. La riforma che votiamo dopodomani è parziale (ci mancherebbe), esposta a verifiche (certamente), imperfetta (forse, lo vedremo). E’ materia che si mette in moto, solleva polvere dai mobili, mette olio in meccanismi arrugginiti. E richiederà ulteriori, continui aggiustamenti, come ogni atto quotidiano della nostra vita. Che è bella proprio in quanto “riformista”: perché ci cambia ogni giorno, genera curiosità, passioni e sfide, ci mette di fronte all’inedito.
“Il movimento è tutto, il fine è nulla”, diceva un maestro dell’Ottocento che Umberto e i riformisti conoscono bene. Le mummie del perfezionismo immobilista, con il loro sopracciglio alzato, non prevedono movimento. Quanto al “fine”, ne incarnano di più la declinazione al femminile.
La faglia da ricucire – 3/12
Ve lo dico prima, poi da domani sera ve lo diranno tutti. Se vinciamo (e io penso che ce la possiamo fare) sarà perché Renzi avrà conquistato o anestetizzato una parte dell’elettorato populista, sollevando quei temi (costi della politica, stipendi, diminuzione dei parlamentari, etc…) che a noi non piacciono più di tanto o non piacciono affatto. Noi: cioè quell’opinione pubblica democratica e perbene, pensosa e rispettosa, interessata al funzionamento del sistema, alle ingegnerie istituzionali, a pesi e contrappesi, norme e diritti. Mentre quello che oggi i cittadini chiedono alla politica, anzi ai politici, è altro: meno privilegi, meno distanza, meno arroganza. Ci piaccia o no, è questa la linea di faglia del mondo in cui viviamo. Chi è sistema e chi ne è fuori. I potenti e gli esclusi. Noi e loro. I politici e la gente comune.
Da quando Renzi occupa la scena nazionale, la sua più grande preoccupazione è stata quella di ricomporre questa enorme rottura, o quantomeno evitare ulteriori smottamenti. Così si spiegano tutte le sue scelte: l’alternarsi di riforme sistemiche e misure una tantum, disintermediazioni e ricuciture con i corpi intermedi, diritti civili e mance sociali, semplificazioni comunicative, continui stop and go con burocrazie, magistratura, Europa, etc…. Un mix di politiche alte e basse, di strappi e rammendi, di concessioni e irrigidimenti. Sempre con un occhio rivolto al sistema da rimettere in moto, l’altro alla protesta populista da prosciugare.
Questo tentativo titanico domani avrà una verifica stringente, nella sua forma più radicale e crudele. Sì o No: nessuno spazio a giudizi articolati, differenziati, a possibili riesami. In un caso, con la vittoria del Sì, la ricomposizione della frattura verrà incoraggiata e Renzi si accrediterà come il solo leader occidentale in grado di far fronte allo scossone populista. Con il No, i due mondi si allontaneranno sempre più. E la zolla di terra su cui sono ammucchiati D’Alema, Bersani, Berlusconi, Monti, etc… scomparirà nel buco nero dell’antipolitica.
Fiducia – 4/12
Intanto ho vinto la scommessa con me stesso: sono arrivato al post zero, vi ho massacrati per 50 giorni senza saltarne uno, e voi non solo mi avete seguito ma mi avete pure incoraggiato, garantendomi piccoli risarcimenti narcisistici. E sappiate che non è finita: non escludo che il Countdown diventerà un libretto. Anche se l’editore (scaramanzia?) mi ha detto: “Sì, facciamolo, ma riparliamone lunedì 5”.
Di tutto si riparlerà domani. Quando il sole sorgerà come sempre, io farò il mio irrinunciabile strechting mattutino, la colazione abbondante e l’elenco mentale delle cose da fare in giornata. Proprio come oggi. Salvo che è domenica, tutto ha tempi più distesi e di impegni ce ne sono solo due: uno alle 15 (zitti, lasciatemi stare, non fiatate…), l’altro in mattinata, quando celebrerò il rito laico del voto.
Per molti anni non ho votato. Dal 2000, per la precisione. Sono tornato a farlo nel 2014, lo rifaccio oggi. Perché mi piace la riforma ma – forse soprattutto – perché do fiducia ad una nuova e giovane classe dirigente. Penso che Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e gli altri siano bravi, abbiano voglia di fare e possano rimettere in sesto questo nostro benedetto paese. Più semplice di così non so dirvela.
Non c’è niente di più bello e piacevole che fidarsi, e mi dispiace che diversi miei simili vivano in una condizione di perenne sospetto: diffidenti, con un grugno eterno dipinto sul volto, le sopracciglia aggrottate e gli angoli della bocca rivolti verso il basso. Quando li vedo e li ascolto, vorrei dirgli che non fidarsi degli altri è tipico di chi non si fida di sé. Mentre investire in fiducia garantisce sempre un ritorno. Non crea deresponsabilizzazione, ma socialità, condivisione, comunità. Alimenta il circuito virtuoso dell’ottimismo e del futuro. Insomma quello di cui oggi l’Italia ha bisogno più del pane. Buona giornata e a domani. Anzi no. Domani silenzio postelettorale.
Piccola cassetta di pronto soccorso – 6/12
Poi verranno analisi, critiche e progetti. Ora, amici del Sì, la sola cosa giusta è prendere un lungo respiro ed evitare alcuni errori letali. Ve li elenco in modo un po’ crudo:
- Non prendiamocela con gli italiani, vi prego. Hanno votato che più chiaro non si poteva. Cerchiamo solo di capire perché.
- Non scarichiamo sui vincitori. Dovranno assumersi responsabilità. Ma il 40% del paese non può mettersi alla finestra.
- Non sogniamo immediate rivincite. La botta è stata durissima. Ci vorrà tempo per assorbirla.
- Non bruciamo un leader che c’è (l’unico, allo stato) e una bella e giovane classe dirigente in formazione. Non mettiamo loro ansia.
- Riposiamoci, leggiamo, studiamo, guardiamo fuori, allontaniamoci dal campo di battaglia. Qualcosa in più capiremo.
Quanto al resto (governo, partito, futuro), Matteo Renzi ci rifletterà tanto meglio quanto meno sentirà l’assillo di dover dare risposte all’esercito che ha combattuto una generosissima battaglia, molto nel suo nome. Diamogli una mano.
La vittoria triste – 6/12
Fate uno sforzo: a vostra memoria, ricordate un solo appuntamento elettorale (politico, amministrativo, referendario) che non abbia avuto un esito accompagnato da festeggiamenti, sedi zeppe di militanti esultanti, brindisi, manifestazioni? E’ accaduto per la prima volta ieri sera, quando abbiamo visto sfilare in Tv molti, moltissimi vincitori politici con un sorriso stampato sul volto che rassomigliava ad un ghigno, ma nemmeno un cittadino, un attivista a dire la sua, a gioire per la vittoria, ad esprimere felicità per l’accaduto. Eppure si è trattato di un appuntamento che ha sbandierato fortissime ragioni ideali e di principio da tutte e due le parti. Del referendum più combattuto, contrastato e partecipato da 25 anni a questa parte.
Mi chiedo il perché di questa strana vittoria triste, e non so dare una risposta certa. Può darsi che la mancanza di esultanza sia dovuta agli strascichi del clima livoroso della campagna (di cui non assegno responsabilità maggiori agli uni o agli altri). Può darsi che dipenda dalla eterogeneità dei vincitori e dalla consapevolezza delle difficoltà cui andranno incontro. Fatto sta che può apparire paradossale, ma per i perdenti risulterebbe più digeribile una sconfitta legittimamente festeggiata da coloro – e sono tanti, in questo caso – che hanno prevalso.
Che fare – 6/12
- Intanto mettiamoci d’accordo su un punto essenziale: oggi a orientare le scelte politico-elettorali sono i leader, non i partiti. Persone in carne ed ossa. Ad ogni livello, dal Municipio allo Stato. Può non piacervi (a me sì, perché voglio sapere a chi affido la mia delega), ma così funziona.
- Se mettiamo in fila i possibili leader dell’Italia prossima, a me viene in mente solo il nome di Matteo Renzi. Non ritengo abbiano capacità di leadership gli altri aspiranti (Salvini, Di Maio, etc…). Ritengo del tutto esaurita la missione di quelli che abbiamo già visto all’opera (Berlusconi, D’Alema, Bersani, Letta, etc…). Se avete altri nomi, fatemeli. Nomi, non chiacchiere.
- Di Matteo Renzi mi frega zero. A stento lo conosco. Penso semplicemente che abbia indubbie doti di leader, penso che ha governato bene in questi tre anni scarsi (non ricordo un governo che, nelle condizioni date, abbia fatto tante buone riforme) e ha energie per tornare a farlo. Dicono che sia arrogante. Dopo la botta dell’altro ieri migliorerà. Sennò peggio per lui (oltre che per noi).
- Se è tale, un leader crea squadre. Contrariamente a quello che si dice, partendo più o meno da zero e magari con un pizzico di diffidenza di troppo, Renzi lo sta facendo. L’attuale squadra di governo è fatta, in prevalenza, di persone capaci e competenti. E nel paese c’è una classe dirigente diffusa che si ritiene partecipe con Renzi di un’impresa di cambiamento.
- Il leader deve costruire squadre. Ma senza il leader una squadra è nulla. Per questo Renzi va protetto. Da tanti di noi, che sognano di archiviare subito il referendum come un brutto ricordo e vogliono l’immediata rivincita. E dai suoi, che ora pare vogliano spingerlo alla prova di forza delle elezioni subito. Ingenui, oppure (umanamente) interessati a conservare posti.
- Dice: ripartiamo dal 40% di domenica. Che però non è una quota scritta nelle Tavole della Legge, e soprattutto non si applica a scadenze e momenti diversi. Nel Sì del 4 dicembre c’è tanta buona roba (le zone più avanzate del paese, la fiducia in Renzi, la valutazione ragionata sulla riforma), ma pensare di costituirsi prescindendo programmaticamente dal 60% (il Sud intero, le periferie, gli antipatizzanti ad personam) mi sembra follia suicida.
- Bisogna invece ripartire dalla ricostruzione di Renzi. Di un Renzi innovatore, riformista maturo, leader europeo, in grado di vincere la prossima volta. C’è bisogno di un po’ di tempo per farlo. Lo si lasci respirare, riflettere, metabolizzare, cambiare. Non è questione di anni o mesi. Basta che ora stacchi la spina. Dal governo e dal partito.
- Anche dal partito? E come si farà, senza il partito? Eccolo, il più grande dei luoghi comuni. Il partito virtuale di Renzi c’è e vota: basta e avanza. Inutile che gli elettori di Renzi vadano ad iscriversi al Pd (come meditano di fare diversi amici): ne ricaverebbero solo perdite di tempo e frustrazioni. Perché il partito reale fa solo danni (Campania, Sicilia, notabili locali, capicorrente, etc…), ed è impenetrabile come una corazza di armadillo. Quindi il massimo che Renzi possa fare domani, in direzione, è lasciare il partito in mano a persone affidabili e leali. Non c’è riforma possibile, per il Pd come per tutte le macchine politiche tradizionali.
- E l’Italia, nel frattempo? Per il tempo necessario sarà gestita alla meno peggio, come è spesso avvenuto. Approvazione della buona legge di stabilità, un governo per l’ordinaria amministrazione. I vincitori di domenica intrecceranno piccole risse su leggi elettorali e date del voto. Lo sconfitto si preparerà a tornare, ritrovando libertà di pensiero e di azione.
- Riposiamoci, leggiamo, studiamo, guardiamo fuori, dicevo ieri. Come vedete, mi sono bastate 24 ore per contraddirmi.